Antico / Veli

Nel 1900 la danzatrice americana Isadora Duncan debutta in Europa portando nei salotti delle capitali della cultura le sue danze ispirate ai quadri del Rinascimento e alle figure dell’antichità.
Tra gli eventi simbolici e inaugurali della sua reinvenzione della danza e del suo successo planetario c’è la serie di recital londinesi alla New Gallery di Regent Street, dove musicisti, artisti, oratori e letterati intervengono nelle sue serate di danza. Il terzo recital è quasi tutto dedicato alla pittura con danze che evocano celebri quadri italiani (perlopiù conservati a Londra) e musiche abbinate, anche se composte in altri secoli rispetto ai dipinti.
È il 6 luglio e ad aprire l’evento è un discorso di Sir William Richmond, pittore specializzato in soggetti mitologici ed esperto di arte italiana, che probabilmente indirizza la giovane danzatrice nella scelta dei temi della serata il cui programma prevede La Primavera di Botticelli, La bella Simonetta sempre ispirato ai quadri del pittore fiorentino, L’angelo con la viola ispirato alla figura di destra del trittico della Vergine delle rocce di Leonardo e Ambrogio de Predis (al tempo recente acquisizione della National Gallery) e poi Bacco e Arianna di Tiziano. Infine, con un salto non solo cronologico, Orpheus Returning from the Shades, dipinto nel 1895 proprio da Richmond. Nel quadro su Orfeo, il cui soggetto richiama sia il mito sia un tema musicale (la danza era accompagnata dall’Orfeo e Euridice di Monteverdi), la figura maschile svela il suo corpo nervoso e muscoloso sotto il volo di un grande drappo giallo, che si gonfia malgrado la potente stabilità della figura, la cui forza è sprigionata dal gesto delle braccia che sollevano al cielo una lira.
Il tema di Orfeo accompagnerà per anni l’avventura di Isadora che, sulla musica di Gluck, interpreterà, da sola, il coro. Qui il mito agisce su di lei in termini figurativi, caratterizzato da un grande movimento non della figura, ma dello spazio intorno, che si mostra attraverso le sembianze di un velo fluttuante, ovvero una delle formule della raffigurazione del movimento dall’antichità.

La serata londinese costituisce un esempio del metodo che la Duncan, e molti danzatori del suo tempo, andrà affinando nel corso degli anni, utilizzando come materiali della composizione gli elementi figurativi di una pittura che mentre celebra il suo tempo rielabora e trasforma l’antichità e la mitologia, mettendola in scena con uno stile moderno che ne cambia i connotati ma ne rigenera la forza e la presenza nell’immaginario collettivo.
Gli studi, le frequentazioni, le letture nietzschiane, trasformeranno la visione e l’azione dell’antichità sulla danza della Duncan, ma alcune figure, collegate a passi e atteggiamenti sia fisici che spirituali, tornano in molte raffigurazioni della danzatrice ad opera di diversi artisti (come José Clarà) e si cristallizzeranno al punto da sopravvivere a più generazioni di allieve, come la corsa col velo tenuto alto sopra la testa, che nelle ricostruzioni delle danze antiche a partire dalle loro tracce figurative – come quella celebre del musicologo Maurice Emmanuel – è considerato un elemento ricorrente.
Lo si vede nelle fotografie di Arnold Genthe che, dopo aver fotografato Isadora e oltre ad aver inaugurato il genere della fotografia di danza riprendendo decine di performer in azione in natura o nel suo studio (molte delle quali dichiaratamente ispirate alla Duncan), segue fino agli anni Trenta gli sviluppi delle scuole della sorella Elizabeth e di una delle allieve-figlie adottive Irma, che avevano diretto rispettivamente le scuole fondate in Germania e in Russia e si erano poi spostate negli Stati Uniti.

Negli stessi anni in cui la Duncan elaborava il suo metodo mescolando tecniche del movimento e modalità di relazione con la musica e il patrimonio iconografico, altri danzatori usavano formule simili con altri scopi, o con altri stili.
Celeberrimo è l’utilizzo dei tessuti e della loro capacità di disegnare forme astratte attorno al corpo, oltre che di farsi schermi di proiezione per luci e colori, da parte dell’americana Loïe Fuller, vera pioniera della danza libera e dei suoi sconfinamenti nell’arte visiva e nelle altre forme di spettacolo, impresaria della Duncan in una sua breve e precoce avventura d’esordio. Tra i fotografi che la hanno ripresa c’è Eugène Druet, autore di molte riproduzioni delle opere di Auguste Rodin negli anni a cavallo tra i due secoli e, nel 1909, fotografo dei danzatori dei Balletti Russi su commissione di pittori che volevano raffigurarli.

Anche nel balletto accademico penetra il modello greco attraverso i temi mitologici, le posture delle statue e delle antiche raffigurazioni della danza, una energia dionisiaca che introduce ninfe, fauni e baccanali, e gli accessori che simbolizzano questi riferimenti, primo tra tutti il velo che si anima con la velocità, e che diventa il principale soggetto delle raffigurazioni della danza come indice del movimento. Lo si vede bene nel bronzo che la scultrice americana (allieva di Rodin) Malvina Hoffman dedica ad Anna Pavlova e al suo Automne Bacchanale, a cui consacrerà un grande fregio lavorato nell’arco di dieci anni (1914-1924) in collaborazione con la ballerina.

Se il velo caratterizza le “danze greche”, come mostra il repertorio dell’americana Ruth St. Denis ricco di stili e suggestioni provenienti da epoche remote e dall’Oriente, nelle ricerche sul movimento come visualizzazione della musica o degli aspetti invisibili del corpo questo si connota come disegno dell’anima che si muove col danzatore ma con velocità diverse.
È l’esempio di Rudolf Steiner che, dando vita al metodo dell’Euritmia come pratica della sua scienza dello spirito, individua nel velo che fa indossare ai danzatori il loro corpo astrale. All’inizio degli anni Venti lo disegna lui stesso abbinandolo ai colori, mostrandone le asincronie e le diverse direzioni rispetto ai movimenti del corpo fisico di cui costituisce una visibile estensione.

Il velo diventa quindi una figura ricorrente della danza e delle sue raffigurazioni, un indizio della continuità con le nobili e sacre danze antiche, elemento vitale che mostra, come nelle pitture del passato, il movimento del corpo. Questo ne fa una figura ricorrente anche della fotografia, che eredita formule e canoni dalle altre arti visive e, all’inizio del secolo, guarda alla danza come strumento di messa in vita della posa e della figura umana, resa espressiva dal movimento e dai suoi accessori nell’azione transitoria e reale prima che nella sua rappresentazione fissa e duratura.

Nella fotografia di nudo, scattata a modelle anonime, la danza e l’antichità penetrano attraverso le posizioni e attraverso i disegni nello spazio compiuti dal velo, come si vede nel progetto Draperies in Action di Charles Schenck del 1902: una impronta dell’antico nel cuore delle tecniche della modernità. [Samantha Marenzi]

 

Vale a dire che la danzatrice non è una donna che danza, e per questi motivi giustapposti che non è una donna, ma una metafora che riassume uno degli aspetti elementari della nostra forma, spada, coppa, fiore, ecc…, e che lei non danza, suggerendo, per mezzo del prodigio degli scorci e degli slanci, con una scrittura corporale quello per cui ci vorrebbero dei paragrafi in prosa dialogata quanto descrittiva, per esprimere, nella redazione: poema liberato da tutti gli apparecchi dello scriba. [Sthéphane Mallarmé, Balletti, in Filosofia della danza, Il Melangolo, Genova 1992, pp. 53-54 – ed. or. 1886-1887]

* * *

Mallarmé dice la ballerina non è una donna che danza, in quanto non è una donna, e non danza. Questa osservazione profonda non è soltanto profonda: è vera; e non è soltanto vera, ossia sempre più avvalorata dalla riflessione, ma anche verificabile; e io l’ho veduta verificata. La più libera, la più sciolta, la più voluttuosa delle danze possibili m’apparve sopra uno schermo in cui si mostravano alcune grandi Meduse: non erano affatto donne, e non danzavano. Non donne, ma creature d’una sostanza incomparabile, diafana e sensitiva, carni di vetro follemente irritabili, cupole di seta ondeggiante, corone ialine, lunghi nastri vivi percorsi da onde rapide, frange e crespe che esse piegano e spiegano; e intanto si voltano, si deformano, fuggono via, fluide quanto il massiccio fluido che le comprime, le sposa, le sostiene da ogni parte, fa loro posto alla minima inflessione e le sostituisce nella forma. [Paul Valéry, Della danza, in Degas Danza Disegno, Abscondita, Milano 2013, pp. 25-26 – ed. or. 1938]

* * *

Che una donna associ lo svolazzare delle vesti alla danza potente o vasta al punto da sostenerle, all’infinito, come la propria espansione. [Sthéphane Mallarmé, Altro studio di danza, in Filosofia della danza, Il Melangolo, Genova 1992, p. 62 – ed. or. 1893; 1945]

* * *

Orfeo fu il genio animatore della Grecia sacra, colui che ne risvegliò lo spirito divino. La sua lira a sette corde abbraccia l’universo intero. Ogni corda risponde a un moto dell’animo umano, contiene i canoni di una legge, di un’arte. […] La pulsione teurgica e dionisiaca che Orfeo seppe imprimere alla Grecia si diffuse in tutta l’Europa. Oggi non si crede più alla bellezza della vita. Se, malgrado tutto, ne conserviamo una recondita memoria, una segreta e invincibile speranza, lo dobbiamo a quel sublime ispirato. [Édouard Schuré, I grandi iniziati, Newton, Roma 1990, p. 173 – ed. or. 1889]

* * *

Memoria, desiderio, tempo: Ninfa percorre gli oggetti dell’arte warburgiana come un “organismo enigmatico”. Eroina impersonale dell’aura – il tempo lontano che turba l’evento sotto i nostri sguardi – vive costantemente tra la pietra e l’etere, il flusso e la stabilità: fuggitiva come il vento, pallida e tenace come un fossile. Eroina molteplice dell’estraneità inquietante, ci dà in dono le “somiglianze nascoste”, ove, improvvisamente, tutte le epoche danzano insieme e tutte le incarnazioni possibili si mescolano come in un sogno. [Georges Didi-Hubermann, Ninfa moderna. Saggio sul panneggio caduto, Il Saggiatore, Milano 2004 – ed. or. 2002]

 

In 1902, a large volume of photographs of the nude was published in New York by Charles Schenk, a American-German photographer. Entitled Draperies in Action, the book displayed the ample anatomy of turn-of-the-century models carefully swathed in voluminous, if wrinkled, hangings. The artful poses and flowing drapery seem to suggest a classical point of view, bur the fully-flashes bodies and generous tresses of the ladies are Edwardian beyond all doubt. Since Schenk chose not to accompany his carefully reproduced pictures with a text, we are ignorant of his views on photography and the nude. But the photographs are entrancing and, like the draperies, they can stand alone. […]
His adroit use of artificially suspended drapery and dance-like, graceful poses conveys a feeling of movement that is absent in most photographs of the time, especially those of the nude. The nude photographs of the last third of the nineteenth century often aped the lifelessly perfect pseudo-classical academic sculpture of the period. [Peter Lacey, The history of the nude in photography, Bantam Gallery edition, New York 1964, pp. 46-47]

* * *

L’engouement pour la danse s’exprime donc au début du siècle dans tous les domaines artistiques et entraîne un renouveau des formes, des couleurs, des rythmes, des sujets et des sources d’inspiration. La photographie n’a pas été épargnée par cet élan; elle a favorisé quelques études comme celle de Maurice Emmanuel sur la chorégraphie grecque, réalisée avec l’aide des chronophotographies de Marey. La danse, en contrepartie, a apporté à la photographie certaine réponse au problème de la représentation du mouvement […]. [Hélène Pinet, Ornement de la Durée, Musée Rodin, Paris 1987, p. 20]

* * *

Les danseuses grecques aiment à faire flotter autour d’elles des étoffes amples et légères. Les plus habiles parviennent à déployer leur manteau de telle sorte qu’il s’arrondisse au-dessus de leur tête et l’encadre gracieusement. C’est là un jeu orchestique spécial dont on peut suivre les différentes phases sur les figures suivantes:
Fig. 457: la danseuse saisit les bords du manteau;
Fig. 458: elle ouvre les bras. […]
Fig. 459: les bras sont entièrement étendus et le voile flotte avec ampleur. […]
Les figures 107 et 494, B, peuvent être interprétées comme la fin de ce jeu orchestique du manteau: celui-ci retombe par son propre poids, après s’être gonflé au vent, et se transforme alors en une sorte d’écharpe plissée. La Niké de Paeonios […] est déjà une danseuse qui déploie son voile en sautant. Les représentations analogues ne sont pas rares dans la statuaire grecque. [Maurice Emmanuel, La danse grecque antique d’après les monuments figurés, Hachette, Paris 1896, pp. 209-210]

 

Mentre egli cerca di parlare ancora, la ninfa impaurita continua a fuggire e si lascia alle spalle lui e il suo discorso incompleto: ma pur sempre gli appare bella. I venti le denudano il corpo, soffiando contro le sue vesti e facendole svolazzare, e la brezza leggera le ributta indietro i capelli: la sua bellezza è valorizzata dalla corsa. [Ovidio, Le Metamorfosi, Libro I]

* * *

In dance, the veil marks the boundary between expressiveness and impenetrability, between the dynamics of transient movement and the motionless structure of the body in space. The drapery of the veil signifies a zone of transition; as in the case of dance itself, the veil unfurls a transitory act of creating and relocating meaning in motion. On the one hand, we have the body, which owes its visibility to the veil, as it almost impregnates the fabric and molds it with its “contours” (J. J. Winckelmann). On the other hand, we have the garment, the shawl, whose movement dissolve all contours in an abstract process – a process in which the body is quasi-transformed into the very texture of the fabric. [ Gabriele Brandstetter, Poetics of dance, Oxford University Press 2015, p. 97 – ed. or. 1995]

* * *

Ora, la Danza genera tutta una plastica: il piacere di danzare suscita intorno a sé il piacere di veder danzare.
Dalle stesse membra che compongono, scompongono e ricompongono le proprie figure, o dai movimenti che si rispondono a intervalli eguali e armoniosi, si forma un ornamento della durata, come dalla ripetizione dei motivi nello spazio, o anche dalle loro simmetrie, si forma l’ornamento dell’estensione. [Paul Valéry, Della danza, in Degas Danza Disegno, Abscondita, Milano 2013, p. 24 – ed. or. 1938]

Nel 1900 la danzatrice americana Isadora Duncan debutta in Europa portando nei salotti delle capitali della cultura le sue danze ispirate ai quadri del Rinascimento e alle figure dell’antichità.
Tra gli eventi simbolici e inaugurali della sua reinvenzione della danza e del suo successo planetario c’è la serie di recital londinesi alla New Gallery di Regent Street, dove musicisti, artisti, oratori e letterati intervengono nelle sue serate di danza. Il terzo recital è quasi tutto dedicato alla pittura con danze che evocano celebri quadri italiani (perlopiù conservati a Londra) e musiche abbinate, anche se composte in altri secoli rispetto ai dipinti.
È il 6 luglio e ad aprire l’evento è un discorso di Sir William Richmond, pittore specializzato in soggetti mitologici ed esperto di arte italiana, che probabilmente indirizza la giovane danzatrice nella scelta dei temi della serata il cui programma prevede La Primavera di Botticelli, La bella Simonetta sempre ispirato ai quadri del pittore fiorentino, L’angelo con la viola ispirato alla figura di destra del trittico della Vergine delle rocce di Leonardo e Ambrogio de Predis (al tempo recente acquisizione della National Gallery) e poi Bacco e Arianna di Tiziano. Infine, con un salto non solo cronologico, Orpheus Returning from the Shades, dipinto nel 1895 proprio da Richmond. Nel quadro su Orfeo, il cui soggetto richiama sia il mito sia un tema musicale (la danza era accompagnata dall’Orfeo e Euridice di Monteverdi), la figura maschile svela il suo corpo nervoso e muscoloso sotto il volo di un grande drappo giallo, che si gonfia malgrado la potente stabilità della figura, la cui forza è sprigionata dal gesto delle braccia che sollevano al cielo una lira.
Il tema di Orfeo accompagnerà per anni l’avventura di Isadora che, sulla musica di Gluck, interpreterà, da sola, il coro. Qui il mito agisce su di lei in termini figurativi, caratterizzato da un grande movimento non della figura, ma dello spazio intorno, che si mostra attraverso le sembianze di un velo fluttuante, ovvero una delle formule della raffigurazione del movimento dall’antichità.

La serata londinese costituisce un esempio del metodo che la Duncan, e molti danzatori del suo tempo, andrà affinando nel corso degli anni, utilizzando come materiali della composizione gli elementi figurativi di una pittura che mentre celebra il suo tempo rielabora e trasforma l’antichità e la mitologia, mettendola in scena con uno stile moderno che ne cambia i connotati ma ne rigenera la forza e la presenza nell’immaginario collettivo.
Gli studi, le frequentazioni, le letture nietzschiane, trasformeranno la visione e l’azione dell’antichità sulla danza della Duncan, ma alcune figure, collegate a passi e atteggiamenti sia fisici che spirituali, tornano in molte raffigurazioni della danzatrice ad opera di diversi artisti (come José Clarà) e si cristallizzeranno al punto da sopravvivere a più generazioni di allieve, come la corsa col velo tenuto alto sopra la testa, che nelle ricostruzioni delle danze antiche a partire dalle loro tracce figurative – come quella celebre del musicologo Maurice Emmanuel – è considerato un elemento ricorrente.
Lo si vede nelle fotografie di Arnold Genthe che, dopo aver fotografato Isadora e oltre ad aver inaugurato il genere della fotografia di danza riprendendo decine di performer in azione in natura o nel suo studio (molte delle quali dichiaratamente ispirate alla Duncan), segue fino agli anni Trenta gli sviluppi delle scuole della sorella Elizabeth e di una delle allieve-figlie adottive Irma, che avevano diretto rispettivamente le scuole fondate in Germania e in Russia e si erano poi spostate negli Stati Uniti.

Negli stessi anni in cui la Duncan elaborava il suo metodo mescolando tecniche del movimento e modalità di relazione con la musica e il patrimonio iconografico, altri danzatori usavano formule simili con altri scopi, o con altri stili.
Celeberrimo è l’utilizzo dei tessuti e della loro capacità di disegnare forme astratte attorno al corpo, oltre che di farsi schermi di proiezione per luci e colori, da parte dell’americana Loïe Fuller, vera pioniera della danza libera e dei suoi sconfinamenti nell’arte visiva e nelle altre forme di spettacolo, impresaria della Duncan in una sua breve e precoce avventura d’esordio. Tra i fotografi che la hanno ripresa c’è Eugène Druet, autore di molte riproduzioni delle opere di Auguste Rodin negli anni a cavallo tra i due secoli e, nel 1909, fotografo dei danzatori dei Balletti Russi su commissione di pittori che volevano raffigurarli.

Anche nel balletto accademico penetra il modello greco attraverso i temi mitologici, le posture delle statue e delle antiche raffigurazioni della danza, una energia dionisiaca che introduce ninfe, fauni e baccanali, e gli accessori che simbolizzano questi riferimenti, primo tra tutti il velo che si anima con la velocità, e che diventa il principale soggetto delle raffigurazioni della danza come indice del movimento. Lo si vede bene nel bronzo che la scultrice americana (allieva di Rodin) Malvina Hoffman dedica ad Anna Pavlova e al suo Automne Bacchanale, a cui consacrerà un grande fregio lavorato nell’arco di dieci anni (1914-1924) in collaborazione con la ballerina.

Se il velo caratterizza le “danze greche”, come mostra il repertorio dell’americana Ruth St. Denis ricco di stili e suggestioni provenienti da epoche remote e dall’Oriente, nelle ricerche sul movimento come visualizzazione della musica o degli aspetti invisibili del corpo questo si connota come disegno dell’anima che si muove col danzatore ma con velocità diverse.
È l’esempio di Rudolf Steiner che, dando vita al metodo dell’Euritmia come pratica della sua scienza dello spirito, individua nel velo che fa indossare ai danzatori il loro corpo astrale. All’inizio degli anni Venti lo disegna lui stesso abbinandolo ai colori, mostrandone le asincronie e le diverse direzioni rispetto ai movimenti del corpo fisico di cui costituisce una visibile estensione.

Il velo diventa quindi una figura ricorrente della danza e delle sue raffigurazioni, un indizio della continuità con le nobili e sacre danze antiche, elemento vitale che mostra, come nelle pitture del passato, il movimento del corpo. Questo ne fa una figura ricorrente anche della fotografia, che eredita formule e canoni dalle altre arti visive e, all’inizio del secolo, guarda alla danza come strumento di messa in vita della posa e della figura umana, resa espressiva dal movimento e dai suoi accessori nell’azione transitoria e reale prima che nella sua rappresentazione fissa e duratura.

Nella fotografia di nudo, scattata a modelle anonime, la danza e l’antichità penetrano attraverso le posizioni e attraverso i disegni nello spazio compiuti dal velo, come si vede nel progetto Draperies in Action di Charles Schenck del 1902: una impronta dell’antico nel cuore delle tecniche della modernità. [Samantha Marenzi]

 

Vale a dire che la danzatrice non è una donna che danza, e per questi motivi giustapposti che non è una donna, ma una metafora che riassume uno degli aspetti elementari della nostra forma, spada, coppa, fiore, ecc…, e che lei non danza, suggerendo, per mezzo del prodigio degli scorci e degli slanci, con una scrittura corporale quello per cui ci vorrebbero dei paragrafi in prosa dialogata quanto descrittiva, per esprimere, nella redazione: poema liberato da tutti gli apparecchi dello scriba. [Sthéphane Mallarmé, Balletti, in Filosofia della danza, Il Melangolo, Genova 1992, pp. 53-54 – ed. or. 1886-1887]

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Mallarmé dice la ballerina non è una donna che danza, in quanto non è una donna, e non danza. Questa osservazione profonda non è soltanto profonda: è vera; e non è soltanto vera, ossia sempre più avvalorata dalla riflessione, ma anche verificabile; e io l’ho veduta verificata. La più libera, la più sciolta, la più voluttuosa delle danze possibili m’apparve sopra uno schermo in cui si mostravano alcune grandi Meduse: non erano affatto donne, e non danzavano. Non donne, ma creature d’una sostanza incomparabile, diafana e sensitiva, carni di vetro follemente irritabili, cupole di seta ondeggiante, corone ialine, lunghi nastri vivi percorsi da onde rapide, frange e crespe che esse piegano e spiegano; e intanto si voltano, si deformano, fuggono via, fluide quanto il massiccio fluido che le comprime, le sposa, le sostiene da ogni parte, fa loro posto alla minima inflessione e le sostituisce nella forma. [Paul Valéry, Della danza, in Degas Danza Disegno, Abscondita, Milano 2013, pp. 25-26 – ed. or. 1938]

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Che una donna associ lo svolazzare delle vesti alla danza potente o vasta al punto da sostenerle, all’infinito, come la propria espansione. [Sthéphane Mallarmé, Altro studio di danza, in Filosofia della danza, Il Melangolo, Genova 1992, p. 62 – ed. or. 1893; 1945]

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Orfeo fu il genio animatore della Grecia sacra, colui che ne risvegliò lo spirito divino. La sua lira a sette corde abbraccia l’universo intero. Ogni corda risponde a un moto dell’animo umano, contiene i canoni di una legge, di un’arte. […] La pulsione teurgica e dionisiaca che Orfeo seppe imprimere alla Grecia si diffuse in tutta l’Europa. Oggi non si crede più alla bellezza della vita. Se, malgrado tutto, ne conserviamo una recondita memoria, una segreta e invincibile speranza, lo dobbiamo a quel sublime ispirato. [Édouard Schuré, I grandi iniziati, Newton, Roma 1990, p. 173 – ed. or. 1889]

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Memoria, desiderio, tempo: Ninfa percorre gli oggetti dell’arte warburgiana come un “organismo enigmatico”. Eroina impersonale dell’aura – il tempo lontano che turba l’evento sotto i nostri sguardi – vive costantemente tra la pietra e l’etere, il flusso e la stabilità: fuggitiva come il vento, pallida e tenace come un fossile. Eroina molteplice dell’estraneità inquietante, ci dà in dono le “somiglianze nascoste”, ove, improvvisamente, tutte le epoche danzano insieme e tutte le incarnazioni possibili si mescolano come in un sogno. [Georges Didi-Hubermann, Ninfa moderna. Saggio sul panneggio caduto, Il Saggiatore, Milano 2004 – ed. or. 2002]

 

In 1902, a large volume of photographs of the nude was published in New York by Charles Schenk, a American-German photographer. Entitled Draperies in Action, the book displayed the ample anatomy of turn-of-the-century models carefully swathed in voluminous, if wrinkled, hangings. The artful poses and flowing drapery seem to suggest a classical point of view, bur the fully-flashes bodies and generous tresses of the ladies are Edwardian beyond all doubt. Since Schenk chose not to accompany his carefully reproduced pictures with a text, we are ignorant of his views on photography and the nude. But the photographs are entrancing and, like the draperies, they can stand alone. […]
His adroit use of artificially suspended drapery and dance-like, graceful poses conveys a feeling of movement that is absent in most photographs of the time, especially those of the nude. The nude photographs of the last third of the nineteenth century often aped the lifelessly perfect pseudo-classical academic sculpture of the period. [Peter Lacey, The history of the nude in photography, Bantam Gallery edition, New York 1964, pp. 46-47]

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L’engouement pour la danse s’exprime donc au début du siècle dans tous les domaines artistiques et entraîne un renouveau des formes, des couleurs, des rythmes, des sujets et des sources d’inspiration. La photographie n’a pas été épargnée par cet élan; elle a favorisé quelques études comme celle de Maurice Emmanuel sur la chorégraphie grecque, réalisée avec l’aide des chronophotographies de Marey. La danse, en contrepartie, a apporté à la photographie certaine réponse au problème de la représentation du mouvement […]. [Hélène Pinet, Ornement de la Durée, Musée Rodin, Paris 1987, p. 20]

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Les danseuses grecques aiment à faire flotter autour d’elles des étoffes amples et légères. Les plus habiles parviennent à déployer leur manteau de telle sorte qu’il s’arrondisse au-dessus de leur tête et l’encadre gracieusement. C’est là un jeu orchestique spécial dont on peut suivre les différentes phases sur les figures suivantes:
Fig. 457: la danseuse saisit les bords du manteau;
Fig. 458: elle ouvre les bras. […]
Fig. 459: les bras sont entièrement étendus et le voile flotte avec ampleur. […]
Les figures 107 et 494, B, peuvent être interprétées comme la fin de ce jeu orchestique du manteau: celui-ci retombe par son propre poids, après s’être gonflé au vent, et se transforme alors en une sorte d’écharpe plissée. La Niké de Paeonios […] est déjà une danseuse qui déploie son voile en sautant. Les représentations analogues ne sont pas rares dans la statuaire grecque. [Maurice Emmanuel, La danse grecque antique d’après les monuments figurés, Hachette, Paris 1896, pp. 209-210]

 

Mentre egli cerca di parlare ancora, la ninfa impaurita continua a fuggire e si lascia alle spalle lui e il suo discorso incompleto: ma pur sempre gli appare bella. I venti le denudano il corpo, soffiando contro le sue vesti e facendole svolazzare, e la brezza leggera le ributta indietro i capelli: la sua bellezza è valorizzata dalla corsa. [Ovidio, Le Metamorfosi, Libro I]

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In dance, the veil marks the boundary between expressiveness and impenetrability, between the dynamics of transient movement and the motionless structure of the body in space. The drapery of the veil signifies a zone of transition; as in the case of dance itself, the veil unfurls a transitory act of creating and relocating meaning in motion. On the one hand, we have the body, which owes its visibility to the veil, as it almost impregnates the fabric and molds it with its “contours” (J. J. Winckelmann). On the other hand, we have the garment, the shawl, whose movement dissolve all contours in an abstract process – a process in which the body is quasi-transformed into the very texture of the fabric. [ Gabriele Brandstetter, Poetics of dance, Oxford University Press 2015, p. 97 – ed. or. 1995]

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Ora, la Danza genera tutta una plastica: il piacere di danzare suscita intorno a sé il piacere di veder danzare.
Dalle stesse membra che compongono, scompongono e ricompongono le proprie figure, o dai movimenti che si rispondono a intervalli eguali e armoniosi, si forma un ornamento della durata, come dalla ripetizione dei motivi nello spazio, o anche dalle loro simmetrie, si forma l’ornamento dell’estensione. [Paul Valéry, Della danza, in Degas Danza Disegno, Abscondita, Milano 2013, p. 24 – ed. or. 1938]