Grazie / Ottocento

Antonio Canova è senz’altro il principale interprete della versione neoclassica del motivo delle Grazie, che nell’Ottocento riaffiora nella produzione artistica e letteraria e si fissa in gruppi scultorei e versi poetici. In quest’ultimo caso, l’opera che Ugo Foscolo dedica alle Tre Grazie – con riferimento all’opera canoviana – immerge le loro figure nel contesto e nelle istanze del suo tempo, e intesse nuovi legami tra parola e immagine, tra arte del tempo e arte dello spazio.

Si assiste, nell’interpretazione canoviana, a un ritorno alla postura originaria e al nudo che aveva caratterizzato i rilievi antichi. Un ritorno alla materia dura della pietra e alla tridimensionalità della scultura. Non scompare però il legame con la danza se si osserva nel suo insieme la produzione canoviana, dove il gruppo scultoreo delle Tre Grazie mostra punti in comune con le celebri danzatrici dello scultore, e dove queste due formule si mescolano nei dipinti che vedono il trio danzare e sollevare un velo leggero sulle loro teste.

In una versione identica a quella dei dipinti canoviani, le allieve di Isadora Duncan appaiono in una serie di fotografie scattate da Arnold Genthe, che utilizza anche il modello scultoreo per riprendere, nella stessa posa e con le stesse espressioni delle figure ottocentesche, una generazione ancora successiva di allieve duncaniane, in questo caso di Elizabeth, la sorella pedagoga di Isadora. Queste danzatrici più o meno esperte ereditano, insieme con una tecnica di movimento, un complesso patrimonio culturale, e incorporano i gesti e le attitudini di opere d’arte universalmente riconosciute e riconoscibili. Le loro azioni, sia quelle sprigionate all’aperto in giardini dall’atmosfera idillica, sia quelle trattenute nella posa assunta nello studio del fotografo, riattivano lo scambio tra la vita del corpo e l’eternità dell’immagine, nutrendolo dei significati stratificati nella formula utilizzata.

Altre sculture, come quella di Jean-Baptiste Carpeaux, celebre – tra l’altro – per la scultura raffigurante la danza nelle decorazioni esterne dell’Opéra Garnier di Parigi e al tempo dell’installazione ritenuta oscena – avvolgono le Grazie nel turbine emotivo del Romaticismo. Le loro figure recuperano un dinamismo nuovo e drammatico e la loro energia riverbera nello spazio vuoto al centro del loro cerchio, e nel volume esterno in cui la scultura si colloca.

Nella coreografia che Isadora Duncan crea per le sue allieve, queste avanzano nella scena a piccoli passi intrecciate tra loro. Una volta al centro dello spazio, si allargano in un cerchio danzante in cui i corpi proiettano la loro energia in diverse direzioni, le teste inclinate verso il lato opposto della direzione del girotondo, creando una forza alternativamente centrifuga e centripeta e unendo le due formule con cui le Grazie sono tradizionalmente raffigurate: statiche su una linea e dinamiche nel cerchio. L’idea originaria di questa danza deriva dall’esperienza di Isadora a Bayreuth. Lì, sotto lo sguardo di Cosima Wagner, la danzatrice aveva proposto una versione dell’apparizione delle Tre Grazie sognando la scuola che avrebbe formato giovani in grado di incarnare la sua visione e trovando, dopo le prime resistenze, l’approvazione della vedova del Maestro e un riscontro nelle note di quest’ultimo.

Tra le immagini matrici del motivo delle Grazie una fonte arriva infatti, oltre che dalla poesia e dall’arte visiva, anche dalla musica, con il primo atto della prima scena del Tannhäuser, dove le Tre Grazie, complici di Venere, vincono sulle passioni selvagge dei sudditi del suo regno. [Samantha Marenzi]

 

 

«Perché, allora, non dovremmo poter plasmare un’immagine universale, cioè un’immagine dello stesso universo? Con essa si potrebbe sperare di ottenere molti benefici dall’universo». Questa esclamazione si trova all’inizio del capitolo XIX, dopo la lunga difesa delle immagini planetarie, usate in modo «naturale», contenuta nel capitolo precedente. Questa immagine universale, o «figura del mondo» (mundi figura) può essere fatta in ottone combinato ad oro e argento. (Si tratta dei metalli di Giove, del Sole e di Venere.) Il lavoro dovrà essere avviato in un momento di buon auspicio, quando il Sole entra nel primo grado dell’Ariete. Non dovrà essere svolto durante il sabato, giorno di Saturno. Dovrà inoltre essere compiuto in Venere, «a significare la sua assoluta bellezza». Occorre che l’opera comprenda colori e linee, o tratti particolari. «Esistono tre colori universali e singolari del mondo, il verde, l’oro e il blu, consacrati alle Tre Grazie del Cielo», che sono Venere, il Sole e Giove. «Si ritiene, dunque, che per attirare i doni delle grazie celesti occorra fare uso frequente di questi tre colori, e nella forma del mondo che voi plasmate dovrà essere incluso il colore blu della sfera del mondo. Si ritiene altresì che bisogni aggiungere l’oro all’opera preziosa fatta a somiglianza del cielo stesso, e le stelle, e Vesta, o Cerere, cioè la terra, vestita di verde». [Frances A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, Roma-Bari 2010 (ed. or. 1985) p. 82]

 

* * *

 

Cantando o Grazie degli eterei pregi
Di che il ciclo v’adorna, e della gioja
Che vereconde voi date alla terra,
Belle vergini! a voi chieggio l’arcana
Armoniosa melodia pittrice
Della vostra beltà […]
[Ugo Foscolo, Le Grazie, vv. 1-6]

La danza, segno il più manifesto e certo della gioja, la vediamo presso tutte le nazioni unirsi ognora con la musica, e con la poesia, onde rallegrare ogni guisa di feste, religiose, militari, rusticane, e cittadine. Era però naturale che i primi artisti, prendendo parte alla gioja comune, si compiacessero di raffigurare il ballo in tutti quei modi, che giovano meglio a risvegliare le più care sensazioni. Così fecero gli antichi, e così fra i moderni l’antico Canova, il quale ci rappresenta tre Danzatrici fresche, bellissime, e snelle, che si confonderebbero per avventura con le Grazie medesime, senza l’attitudine, che il diverso ufficio ne addita. [Isabella Teotochi Albrizzi, Tre danzatrici, in Opere di scultura e di plastica di Antonio Canova, vol. I, Pisa, Niccolò Capurro, 1821, pp. 5-7]

Divinità sono queste, a cui eressero i migliori e più culti popoli altari; Divinità, senza il cui sorriso indarno osa l’uomo pretendere a chiara immortalità, meta pur da’ migliori sospirata; Divinità a cui la Grecia eresse per ogni dove Tempj magnifici, e simulacri per opera di que’ sommi, il cui valore levò a tanta altezza di gloria quella classica terra. […] ciascheduna per sé hanno di loro essenza unità, e varietà; quindi il numero delle Grazie presso gli antichi si alterò bene spesso, i nomi se ne cangiarono, il loro culto, ora in quella contrada, ed ora in questa, ottenne maggiore copia d’incensi, ma la Divinità delle Grazie restò sempre riverita, e da tutti invocata. [Isabella Teotochi Albrizzi, Tre danzatrici, in Opere di scultura e di plastica di Antonio Canova, vol. I, Pisa, Niccolò Capurro, 1821, pp. 10-12]

Antonio Canova è senz’altro il principale interprete della versione neoclassica del motivo delle Grazie, che nell’Ottocento riaffiora nella produzione artistica e letteraria e si fissa in gruppi scultorei e versi poetici. In quest’ultimo caso, l’opera che Ugo Foscolo dedica alle Tre Grazie – con riferimento all’opera canoviana – immerge le loro figure nel contesto e nelle istanze del suo tempo, e intesse nuovi legami tra parola e immagine, tra arte del tempo e arte dello spazio.

Si assiste, nell’interpretazione canoviana, a un ritorno alla postura originaria e al nudo che aveva caratterizzato i rilievi antichi. Un ritorno alla materia dura della pietra e alla tridimensionalità della scultura. Non scompare però il legame con la danza se si osserva nel suo insieme la produzione canoviana, dove il gruppo scultoreo delle Tre Grazie mostra punti in comune con le celebri danzatrici dello scultore, e dove queste due formule si mescolano nei dipinti che vedono il trio danzare e sollevare un velo leggero sulle loro teste.

In una versione identica a quella dei dipinti canoviani, le allieve di Isadora Duncan appaiono in una serie di fotografie scattate da Arnold Genthe, che utilizza anche il modello scultoreo per riprendere, nella stessa posa e con le stesse espressioni delle figure ottocentesche, una generazione ancora successiva di allieve duncaniane, in questo caso di Elizabeth, la sorella pedagoga di Isadora. Queste danzatrici più o meno esperte ereditano, insieme con una tecnica di movimento, un complesso patrimonio culturale, e incorporano i gesti e le attitudini di opere d’arte universalmente riconosciute e riconoscibili. Le loro azioni, sia quelle sprigionate all’aperto in giardini dall’atmosfera idillica, sia quelle trattenute nella posa assunta nello studio del fotografo, riattivano lo scambio tra la vita del corpo e l’eternità dell’immagine, nutrendolo dei significati stratificati nella formula utilizzata.

Altre sculture, come quella di Jean-Baptiste Carpeaux, celebre – tra l’altro – per la scultura raffigurante la danza nelle decorazioni esterne dell’Opéra Garnier di Parigi e al tempo dell’installazione ritenuta oscena – avvolgono le Grazie nel turbine emotivo del Romaticismo. Le loro figure recuperano un dinamismo nuovo e drammatico e la loro energia riverbera nello spazio vuoto al centro del loro cerchio, e nel volume esterno in cui la scultura si colloca.

Nella coreografia che Isadora Duncan crea per le sue allieve, queste avanzano nella scena a piccoli passi intrecciate tra loro. Una volta al centro dello spazio, si allargano in un cerchio danzante in cui i corpi proiettano la loro energia in diverse direzioni, le teste inclinate verso il lato opposto della direzione del girotondo, creando una forza alternativamente centrifuga e centripeta e unendo le due formule con cui le Grazie sono tradizionalmente raffigurate: statiche su una linea e dinamiche nel cerchio. L’idea originaria di questa danza deriva dall’esperienza di Isadora a Bayreuth. Lì, sotto lo sguardo di Cosima Wagner, la danzatrice aveva proposto una versione dell’apparizione delle Tre Grazie sognando la scuola che avrebbe formato giovani in grado di incarnare la sua visione e trovando, dopo le prime resistenze, l’approvazione della vedova del Maestro e un riscontro nelle note di quest’ultimo.

Tra le immagini matrici del motivo delle Grazie una fonte arriva infatti, oltre che dalla poesia e dall’arte visiva, anche dalla musica, con il primo atto della prima scena del Tannhäuser, dove le Tre Grazie, complici di Venere, vincono sulle passioni selvagge dei sudditi del suo regno. [Samantha Marenzi]

 

 

«Perché, allora, non dovremmo poter plasmare un’immagine universale, cioè un’immagine dello stesso universo? Con essa si potrebbe sperare di ottenere molti benefici dall’universo». Questa esclamazione si trova all’inizio del capitolo XIX, dopo la lunga difesa delle immagini planetarie, usate in modo «naturale», contenuta nel capitolo precedente. Questa immagine universale, o «figura del mondo» (mundi figura) può essere fatta in ottone combinato ad oro e argento. (Si tratta dei metalli di Giove, del Sole e di Venere.) Il lavoro dovrà essere avviato in un momento di buon auspicio, quando il Sole entra nel primo grado dell’Ariete. Non dovrà essere svolto durante il sabato, giorno di Saturno. Dovrà inoltre essere compiuto in Venere, «a significare la sua assoluta bellezza». Occorre che l’opera comprenda colori e linee, o tratti particolari. «Esistono tre colori universali e singolari del mondo, il verde, l’oro e il blu, consacrati alle Tre Grazie del Cielo», che sono Venere, il Sole e Giove. «Si ritiene, dunque, che per attirare i doni delle grazie celesti occorra fare uso frequente di questi tre colori, e nella forma del mondo che voi plasmate dovrà essere incluso il colore blu della sfera del mondo. Si ritiene altresì che bisogni aggiungere l’oro all’opera preziosa fatta a somiglianza del cielo stesso, e le stelle, e Vesta, o Cerere, cioè la terra, vestita di verde». [Frances A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, Roma-Bari 2010 (ed. or. 1985) p. 82]

 

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Cantando o Grazie degli eterei pregi
Di che il ciclo v’adorna, e della gioja
Che vereconde voi date alla terra,
Belle vergini! a voi chieggio l’arcana
Armoniosa melodia pittrice
Della vostra beltà […]
[Ugo Foscolo, Le Grazie, vv. 1-6]

La danza, segno il più manifesto e certo della gioja, la vediamo presso tutte le nazioni unirsi ognora con la musica, e con la poesia, onde rallegrare ogni guisa di feste, religiose, militari, rusticane, e cittadine. Era però naturale che i primi artisti, prendendo parte alla gioja comune, si compiacessero di raffigurare il ballo in tutti quei modi, che giovano meglio a risvegliare le più care sensazioni. Così fecero gli antichi, e così fra i moderni l’antico Canova, il quale ci rappresenta tre Danzatrici fresche, bellissime, e snelle, che si confonderebbero per avventura con le Grazie medesime, senza l’attitudine, che il diverso ufficio ne addita. [Isabella Teotochi Albrizzi, Tre danzatrici, in Opere di scultura e di plastica di Antonio Canova, vol. I, Pisa, Niccolò Capurro, 1821, pp. 5-7]

Divinità sono queste, a cui eressero i migliori e più culti popoli altari; Divinità, senza il cui sorriso indarno osa l’uomo pretendere a chiara immortalità, meta pur da’ migliori sospirata; Divinità a cui la Grecia eresse per ogni dove Tempj magnifici, e simulacri per opera di que’ sommi, il cui valore levò a tanta altezza di gloria quella classica terra. […] ciascheduna per sé hanno di loro essenza unità, e varietà; quindi il numero delle Grazie presso gli antichi si alterò bene spesso, i nomi se ne cangiarono, il loro culto, ora in quella contrada, ed ora in questa, ottenne maggiore copia d’incensi, ma la Divinità delle Grazie restò sempre riverita, e da tutti invocata. [Isabella Teotochi Albrizzi, Tre danzatrici, in Opere di scultura e di plastica di Antonio Canova, vol. I, Pisa, Niccolò Capurro, 1821, pp. 10-12]