Ritmo / Composizione

I contributi di Adolphe Appia, teorico del teatro, esperto disegnatore e considerato uno dei maestri del Novecento, sono stati determinanti per la configurazione del sistema ritmico di Émile Jaques-Dalcroze.

Nel 1906 Appia assiste per la prima volta a una dimostrazione di alcuni esercizi ritmici, quando il metodo dalcroziano era ancora in una fase germinale, e di nuovo, con pari entusiasmo, nel 1909. In questa nuova forma di rappresentazione, così lontana dalle regole del realismo, egli riconosce finalmente un grande potenziale per la concretizzazione della sua visione di teatro. Come anche Dalcroze, Appia individua nella musica il principio che prescinde ogni elemento della rappresentazione scenica, ovvero la dimensione ideale attraverso la quale l’attore, la scena e l’opera possano ricongiungersi.

Appia realizza dal 1909 dei bozzetti di scena per Dalcroze, constatando come nelle sue dimostrazioni fosse il rapporto con lo spazio l’elemento mancante. Le sue scene sono ambienti enormi e spogli, costituiti da piattaforme e scale in cui la luce gioca un ruolo fondamentale. Attraverso l’alternanza di ombre, luci e un’essenziale configurazione di linee, Appia riesce a donare alla composizione un movimento che prescinde la messa in scena. In altre parole, anche gli spazi per Appia devono rispondere alle proporzioni indicate dalla musica.

L’apparato grafico e teorico di Appia sostanzia le lezioni di ritmica che Dalcroze è chiamato a tenere dal 1911 nel celebre Istituto di Hellerau, città-giardino vicino Dresda, e che mostrano la loro innovazione nelle rappresentazioni di fine anno tratte dell’Orfeo di Gluck.  Nel  1914, anno in cui l’Istituto chiude, Appia e Dalcroze collaborano al Festspiel di Ginevra per il centenario dell’unione della città alla Confederazione svizzera. In quest’ultima occasione Frédéric Boissonnas, ginevrino anche lui, fotografa la rappresentazione dedicata alla commemorazione, intitolata La Fête de Juin. In questi scatti le rythmiciens sono molto numerose, ma i loro movimenti individuali si fondono in un unico corpo in armonia con la scena che le circonda, e dove sono visibili alcuni degli elementi ricorrenti nei bozzetti di Appia, come colonne e gradini.

Un anno dopo, nel 1915, l’Institut Jaques-Dalcroze apre a Ginevra, e Boissonnas torna a fotografare la ritmica, questa volta osservando i momenti di allenamento. Soprattutto in questa fase molto sperimentale, si può tracciare un filo rosso che congiunge le pratiche di Appia e quelle del fotografo nell’elaborazione dell’elemento ritmico per mezzo dell’immagine. Boissonnas fotografa spesso in esterno allestendo un fondo neutro che grazie alla luce del sole definisce i volumi dei corpi. In un secondo momento opera dei tagli sugli scatti che vengono infine montati su un supporto di cartone secondo una sequenza scelta dall’autore. Il processo del montaggio permette a Boissonnas di lavorare su una nuova scansione ritmica del movimento data sia dalla scelta del momento fissato, che dalla composizione della tavola: la riproduzione fotografica, frammentando il flusso dei movimenti, ritrova gli impulsi originari che animano i corpi delle rythmiciens, privati del loro rapporto con la musica, e nel montarli l’intenzione del fotografo diventa parte integrante della nuova scansione ritmica. [Simona Silvestri]

 

 

La durata dei suoni musicali si esteriorizza, nello spazio, in proporzioni visive. Se la musica non avesse che un unico suono ed un’unica durata per quel suono, essa resterebbe schiava del tempo. Sono i raggruppamenti dei suoni che tendono ad avvicinarla allo spazio. Le durate variabili di questi raggruppamenti si combinano fra loro all’infinito, e producono così il fenomeno del ritmo, il quale non è solo un rapporto con lo spazio, ma può anche unirsi indissolubilmente ad esso mediante il movimento. [Adolphe Appia, L’Opera d’arte vivente, in Attore musica e scena, a cura di Ferruccio Marotti, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 180-181 (ed. or. 1921)]

* * *

Le rythme, de même, n’a pas d’existence propre, il ne constitue pas une entité indépendante des phénomènes qu’il caractérise. Il n’y a pas de «rythme en soi». Il y a des surfaces rythmées, des volumes rythmés, des sons rythmés, des couleurs rythmées, des contacts rythmés, des parfums rythmés, que sais-je! Otez la matière qui sert de substratum au rythme, vous n’aurez plus qu’une abstraction, dont la valeur devient purement métaphysique, et à laquelle il est absurde de vouer une affection sensible. […] Le rythme est la résultante de rapports entre des phénomènes de vitesse, des phénomènes de durée, des phénomènes d’intensité et des phénomènes de cohésion. [Jean d’Udine, Qu’est-ce que la Danse, Henri Laurens, Paris, 1921, p. 56]

 

 

[…] Come dal punto di vista fisico così anche dal punto di vista visivo, l’equilibrio è quella condizione distributiva nella quale ogni cosa raggiunge l’immobilità ovvero, come dice lo studioso di fisica, l’energia potenziale del sistema si riduce al minimo. In una composizione ben bilanciata tutti i fattori, come la forma, la direzione, e la collocazione, si determinano vicendevolmente in modo da rendere inammissibile un cambiamento e da conferire al tutto un carattere di “necessità” in tutte le sue parti. [Rudolf Arnheim, Arte e percezione visiva, a cura di Gillo Dorfles, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 40. (seconda versione  ed. or. 1974)]

* * *

It is rather amusing, this tendency of the wise to regard a print which has been locally manipulated as irrational photography — this tendency which find an esthetic tone of expression in the word faked.

A MANIPULATED print may not be a photograph. The personal intervention between the action of the light and the print itself may be a blemish on the purity of photography. But, whether this intervention consists merely of making, shading and tinting in a direct print, or of stippling, painting and scratching on the negative, or of using glycerine, brush and mop on a print, faking has set in, and the results must always depend upon the photographer, upon his personality, his technical ability and his feeling. [Edward Steichen, Ye Fakers, in «Camera Work», New York, No. 1, January 1903, p. 48]

 * * *

Quando si sarà formata la coscienza ritmica, grazie all’esperienza dei movimenti, vedremo crearsi una continua influenza reciproca dell’atto ritmico sulla sua rappresentazione e viceversa. […] La rappresentazione del ritmo, immagine riflessa dell’atto ritmico, vive in tutti i nostri muscoli. Inversamente il movimento ritmico è la manifestazione visibile della coscienza ritmica. L’uno segue l’altra in una sequenza ininterrotta; essi sono indissolubilmente uniti. [Émile Jaques-Dalcroze, Il ritmo, la musica e l’educazione, a cura di Louisa Di Segni-Jaffé, EDT, Torino, 2008, p. 35 (ed. or. 1920)]

I contributi di Adolphe Appia, teorico del teatro, esperto disegnatore e considerato uno dei maestri del Novecento, sono stati determinanti per la configurazione del sistema ritmico di Émile Jaques-Dalcroze.

Nel 1906 Appia assiste per la prima volta a una dimostrazione di alcuni esercizi ritmici, quando il metodo dalcroziano era ancora in una fase germinale, e di nuovo, con pari entusiasmo, nel 1909. In questa nuova forma di rappresentazione, così lontana dalle regole del realismo, egli riconosce finalmente un grande potenziale per la concretizzazione della sua visione di teatro. Come anche Dalcroze, Appia individua nella musica il principio che prescinde ogni elemento della rappresentazione scenica, ovvero la dimensione ideale attraverso la quale l’attore, la scena e l’opera possano ricongiungersi.

Appia realizza dal 1909 dei bozzetti di scena per Dalcroze, constatando come nelle sue dimostrazioni fosse il rapporto con lo spazio l’elemento mancante. Le sue scene sono ambienti enormi e spogli, costituiti da piattaforme e scale in cui la luce gioca un ruolo fondamentale. Attraverso l’alternanza di ombre, luci e un’essenziale configurazione di linee, Appia riesce a donare alla composizione un movimento che prescinde la messa in scena. In altre parole, anche gli spazi per Appia devono rispondere alle proporzioni indicate dalla musica.

L’apparato grafico e teorico di Appia sostanzia le lezioni di ritmica che Dalcroze è chiamato a tenere dal 1911 nel celebre Istituto di Hellerau, città-giardino vicino Dresda, e che mostrano la loro innovazione nelle rappresentazioni di fine anno tratte dell’Orfeo di Gluck.  Nel  1914, anno in cui l’Istituto chiude, Appia e Dalcroze collaborano al Festspiel di Ginevra per il centenario dell’unione della città alla Confederazione svizzera. In quest’ultima occasione Frédéric Boissonnas, ginevrino anche lui, fotografa la rappresentazione dedicata alla commemorazione, intitolata La Fête de Juin. In questi scatti le rythmiciens sono molto numerose, ma i loro movimenti individuali si fondono in un unico corpo in armonia con la scena che le circonda, e dove sono visibili alcuni degli elementi ricorrenti nei bozzetti di Appia, come colonne e gradini.

Un anno dopo, nel 1915, l’Institut Jaques-Dalcroze apre a Ginevra, e Boissonnas torna a fotografare la ritmica, questa volta osservando i momenti di allenamento. Soprattutto in questa fase molto sperimentale, si può tracciare un filo rosso che congiunge le pratiche di Appia e quelle del fotografo nell’elaborazione dell’elemento ritmico per mezzo dell’immagine. Boissonnas fotografa spesso in esterno allestendo un fondo neutro che grazie alla luce del sole definisce i volumi dei corpi. In un secondo momento opera dei tagli sugli scatti che vengono infine montati su un supporto di cartone secondo una sequenza scelta dall’autore. Il processo del montaggio permette a Boissonnas di lavorare su una nuova scansione ritmica del movimento data sia dalla scelta del momento fissato, che dalla composizione della tavola: la riproduzione fotografica, frammentando il flusso dei movimenti, ritrova gli impulsi originari che animano i corpi delle rythmiciens, privati del loro rapporto con la musica, e nel montarli l’intenzione del fotografo diventa parte integrante della nuova scansione ritmica. [Simona Silvestri]

 

 

La durata dei suoni musicali si esteriorizza, nello spazio, in proporzioni visive. Se la musica non avesse che un unico suono ed un’unica durata per quel suono, essa resterebbe schiava del tempo. Sono i raggruppamenti dei suoni che tendono ad avvicinarla allo spazio. Le durate variabili di questi raggruppamenti si combinano fra loro all’infinito, e producono così il fenomeno del ritmo, il quale non è solo un rapporto con lo spazio, ma può anche unirsi indissolubilmente ad esso mediante il movimento. [Adolphe Appia, L’Opera d’arte vivente, in Attore musica e scena, a cura di Ferruccio Marotti, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 180-181 (ed. or. 1921)]

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Le rythme, de même, n’a pas d’existence propre, il ne constitue pas une entité indépendante des phénomènes qu’il caractérise. Il n’y a pas de «rythme en soi». Il y a des surfaces rythmées, des volumes rythmés, des sons rythmés, des couleurs rythmées, des contacts rythmés, des parfums rythmés, que sais-je! Otez la matière qui sert de substratum au rythme, vous n’aurez plus qu’une abstraction, dont la valeur devient purement métaphysique, et à laquelle il est absurde de vouer une affection sensible. […] Le rythme est la résultante de rapports entre des phénomènes de vitesse, des phénomènes de durée, des phénomènes d’intensité et des phénomènes de cohésion. [Jean d’Udine, Qu’est-ce que la Danse, Henri Laurens, Paris, 1921, p. 56]

 

 

[…] Come dal punto di vista fisico così anche dal punto di vista visivo, l’equilibrio è quella condizione distributiva nella quale ogni cosa raggiunge l’immobilità ovvero, come dice lo studioso di fisica, l’energia potenziale del sistema si riduce al minimo. In una composizione ben bilanciata tutti i fattori, come la forma, la direzione, e la collocazione, si determinano vicendevolmente in modo da rendere inammissibile un cambiamento e da conferire al tutto un carattere di “necessità” in tutte le sue parti. [Rudolf Arnheim, Arte e percezione visiva, a cura di Gillo Dorfles, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 40. (seconda versione  ed. or. 1974)]

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It is rather amusing, this tendency of the wise to regard a print which has been locally manipulated as irrational photography — this tendency which find an esthetic tone of expression in the word faked.

A MANIPULATED print may not be a photograph. The personal intervention between the action of the light and the print itself may be a blemish on the purity of photography. But, whether this intervention consists merely of making, shading and tinting in a direct print, or of stippling, painting and scratching on the negative, or of using glycerine, brush and mop on a print, faking has set in, and the results must always depend upon the photographer, upon his personality, his technical ability and his feeling. [Edward Steichen, Ye Fakers, in «Camera Work», New York, No. 1, January 1903, p. 48]

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Quando si sarà formata la coscienza ritmica, grazie all’esperienza dei movimenti, vedremo crearsi una continua influenza reciproca dell’atto ritmico sulla sua rappresentazione e viceversa. […] La rappresentazione del ritmo, immagine riflessa dell’atto ritmico, vive in tutti i nostri muscoli. Inversamente il movimento ritmico è la manifestazione visibile della coscienza ritmica. L’uno segue l’altra in una sequenza ininterrotta; essi sono indissolubilmente uniti. [Émile Jaques-Dalcroze, Il ritmo, la musica e l’educazione, a cura di Louisa Di Segni-Jaffé, EDT, Torino, 2008, p. 35 (ed. or. 1920)]