Nudo / Arte

Le opere raccolte in questo pannello tentano di raccordare le geografie percorse – Francia, Austria, Repubblica Ceca, Germania, Stati Uniti – e gli ambienti culturali e artistici di riferimento per tutti i fotografi coinvolti nel campo di analisi. Le opere di Gustav Klimt, Egon Schiele, Koloman Moser, František Kupka e Alfons Mucha fanno eco nell’ambiente viennese e ceco di Trude Fleischmann, Rudolf Koppitz e František Drtikol, sostanziano scelte e prospettive di ricerca fotografica. Arthur B. Davies dialoga con lo stesso ambiente di Arnold Genthe, mentre Claude Cahun con quello surrealista di Max Ernst. Lo still cinematografico del film Daughter of the Gods, del 1916, rievoca le spedizioni fotografiche di Anne Brigman nella Sierra Nevada. Suggestioni o canali diretti, e dichiarati, tra arte e fotografia, che hanno in comune un tema, il nudo, e una condizione, la danza.

Kenneth Clark, John Berger e Lynda Nead hanno ragionato intorno al concetto di nudo concatenando tra il 1962, anno di uscita del testo di Clark, e il 1992 riflessioni e ripensamenti critici che appaiono ancora di grande stimolo. Ad aprire il dibattito asincrono di una certa letteratura sul tema la distinzione linguistica riportata da Clark, a inizio del suo saggio, tra le nozioni di «naked» e «nude», che si potrebbe tradurre, nella lingua italiana, con la differenza stante tra l’essere spogliati e l’essere nudi. Il primo come stato di privazione e imbarazzo, il secondo come stato di naturale equilibrio. A partire da questo schema, John Berger contesta la posizione di Clark coinvolgendo nel discorso la fotografia. La convenzionalizzazione del nudo e la tradizione artistica che legittima l’autorità delle sue convenzioni è descritta da Berger e contestata a distanza di due decenni da Lynda Nead, che ritraccia nella riflessione di Berger una inversione dei poli oppositivi di Clark che non riesce a tener conto, tuttavia, di una specificità storica, mediale e culturale della forma immagine – in special modo della fotografia – che rimodella di continuo le stesse convenzioni di potere. Il corpo nudo, afferma Nead, non è mai libero dalla mediazione né liberato dall’intervento culturale.

L’evocazione dei tanti e diversi spiriti del tempo, nel rapporto tra le varie forme di cultura visuale, è in questo senso un tentativo di interrogare il discorso sulle convenzioni visive e percettive rispetto al nudo e, nello specifico, rispetto al nudo in movimento, che rilancia e problematizza la questione della mediazione tra corpo e stato del corpo di fronte all’obiettivo fotografico. [Francesca Pietrisanti]

 

The Naked and the Nude
The English language, with its elaborate generosity, distinguishes between the naked and the nude. To be naked is to be deprived of our clothes, and the word implies some of the embarrassment most of us feel in that condition. The word “nude”, on the other hand, carries, in educated usage, no uncomfortable overtone. The vague image it projects into the mind is not of a huddled and defenseless body, but of a balanced, prosperous, and confident body: the body re-formed. In fact, the word was forced into our vocabulary by critics of the early eighteenth century to persuade the artless islanders that, in countries where painting and sculpture were practiced and valued as they should be, the naked human body was the central subject of art. [Kenneth Clark, The Nude. A study in ideal form, Doubleday Anchor Books, New York 1965]

* * *

Nel suo libro, Il Nudo, Kenneth Clark afferma che essere spogliati è semplicemente essere privi di indumenti, mentre il nudo è una forma d’arte. Nella sua opinione, il nudo non è il punto di partenza dell’opera, bensì un modo di vedere a cui l’opera approda. Il che è, in qualche misura, vero, per quanto il modo di vedere “un nudo” non si limiti necessariamente all’arte: esistono anche nudi fotografici, nudi in posa, nudi in movimento. Quello che è vero è che il nudo è sempre convenzionalizzato e l’autorità delle sue convenzioni deriva da una certa tradizione artistica.
Cosa significano tali convenzioni? Cosa significa il nudo? Non è sufficiente rispondere a queste domande riferendosi semplicemente alla forma artistica, perché è abbastanza chiaro che il nudo ha a che fare anche con la sessualità vissuta.
Essere spogliati è essere se stessi.
Essere nudi è essere visti spogliati e, tuttavia, non essere riconosciuti per se stessi. Per diventare un nudo, il corpo spogliato deve essere visto come un oggetto. (La vista del corpo nudo come oggetto ne stimola l’uso come oggetto.) Lo spogliarsi è rivelazione di sé. La nudità è esibizione.
Essere spogliati è essere senza maschere.
Essere esibiti significa che la superficie della propria pelle, i peli del proprio corpo, sono stati trasformati in una maschera da cui, in quella situazione, non ci si potrà più liberare. Il nudo è condannato a non essere mai spogliato. La nudità è una forma di abito. [John Berger, Questione di sguardi, Il Saggiatore, Milano 1998, pp. 55-56 (ed. or. 1972)]

 

Paradoxically, even John Berger’s challenge to Clark’s account of the nude only succeeds in inverting the naked/nude opposition. In Ways of Seeing (first published in 1972) Berger takes up Clark’s opposition but re- evaluates the terms. Whereas the nude is always subjected to pictorial conventions, ‘To be naked’, he writes, ‘is to be oneself’. To be naked is thus to be without disguise, to be free of the patriarchal conventions of western society. With this framework, Berger juxtaposes European oil paintings with photographs from soft- porn magazines, identifying the same range of poses, gestures and looks in both mediums. The particularity of the medium and cultural form is not important. What matters is the repertoire of conventions that all female nudes are believed to deploy, irrespective of historical or cultural specificity. […] Berger’s evocation of the hundred or so exceptions to the tradition of the female nude in European art assumes that the relationship between the male artist and the female model is inherently natural and good. Power, for Berger, is constituted as public. Private relationships lie outside the domain of power; love transforms the nude into a naked woman and prevents the male spectator, the outsider, from turning the female figure into a voyeuristic spectacle. So, for Berger, the naked is now the positive term and the nude is relegated to the inferior position within the opposition. What is undisturbed, however, is the implication that the naked is somehow freer from mediation, that it is semiotically more open and represents the body liberated from cultural intervention. [Lynda Nead, The Female Nude: Art, Obscenity, and Sexuality, Routledge & Kegan Paul, London and New York 1992]

Le opere raccolte in questo pannello tentano di raccordare le geografie percorse – Francia, Austria, Repubblica Ceca, Germania, Stati Uniti – e gli ambienti culturali e artistici di riferimento per tutti i fotografi coinvolti nel campo di analisi. Le opere di Gustav Klimt, Egon Schiele, Koloman Moser, František Kupka e Alfons Mucha fanno eco nell’ambiente viennese e ceco di Trude Fleischmann, Rudolf Koppitz e František Drtikol, sostanziano scelte e prospettive di ricerca fotografica. Arthur B. Davies dialoga con lo stesso ambiente di Arnold Genthe, mentre Claude Cahun con quello surrealista di Max Ernst. Lo still cinematografico del film Daughter of the Gods, del 1916, rievoca le spedizioni fotografiche di Anne Brigman nella Sierra Nevada. Suggestioni o canali diretti, e dichiarati, tra arte e fotografia, che hanno in comune un tema, il nudo, e una condizione, la danza.

Kenneth Clark, John Berger e Lynda Nead hanno ragionato intorno al concetto di nudo concatenando tra il 1962, anno di uscita del testo di Clark, e il 1992 riflessioni e ripensamenti critici che appaiono ancora di grande stimolo. Ad aprire il dibattito asincrono di una certa letteratura sul tema la distinzione linguistica riportata da Clark, a inizio del suo saggio, tra le nozioni di «naked» e «nude», che si potrebbe tradurre, nella lingua italiana, con la differenza stante tra l’essere spogliati e l’essere nudi. Il primo come stato di privazione e imbarazzo, il secondo come stato di naturale equilibrio. A partire da questo schema, John Berger contesta la posizione di Clark coinvolgendo nel discorso la fotografia. La convenzionalizzazione del nudo e la tradizione artistica che legittima l’autorità delle sue convenzioni è descritta da Berger e contestata a distanza di due decenni da Lynda Nead, che ritraccia nella riflessione di Berger una inversione dei poli oppositivi di Clark che non riesce a tener conto, tuttavia, di una specificità storica, mediale e culturale della forma immagine – in special modo della fotografia – che rimodella di continuo le stesse convenzioni di potere. Il corpo nudo, afferma Nead, non è mai libero dalla mediazione né liberato dall’intervento culturale.

L’evocazione dei tanti e diversi spiriti del tempo, nel rapporto tra le varie forme di cultura visuale, è in questo senso un tentativo di interrogare il discorso sulle convenzioni visive e percettive rispetto al nudo e, nello specifico, rispetto al nudo in movimento, che rilancia e problematizza la questione della mediazione tra corpo e stato del corpo di fronte all’obiettivo fotografico. [Francesca Pietrisanti]

 

The Naked and the Nude
The English language, with its elaborate generosity, distinguishes between the naked and the nude. To be naked is to be deprived of our clothes, and the word implies some of the embarrassment most of us feel in that condition. The word “nude”, on the other hand, carries, in educated usage, no uncomfortable overtone. The vague image it projects into the mind is not of a huddled and defenseless body, but of a balanced, prosperous, and confident body: the body re-formed. In fact, the word was forced into our vocabulary by critics of the early eighteenth century to persuade the artless islanders that, in countries where painting and sculpture were practiced and valued as they should be, the naked human body was the central subject of art. [Kenneth Clark, The Nude. A study in ideal form, Doubleday Anchor Books, New York 1965]

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Nel suo libro, Il Nudo, Kenneth Clark afferma che essere spogliati è semplicemente essere privi di indumenti, mentre il nudo è una forma d’arte. Nella sua opinione, il nudo non è il punto di partenza dell’opera, bensì un modo di vedere a cui l’opera approda. Il che è, in qualche misura, vero, per quanto il modo di vedere “un nudo” non si limiti necessariamente all’arte: esistono anche nudi fotografici, nudi in posa, nudi in movimento. Quello che è vero è che il nudo è sempre convenzionalizzato e l’autorità delle sue convenzioni deriva da una certa tradizione artistica.
Cosa significano tali convenzioni? Cosa significa il nudo? Non è sufficiente rispondere a queste domande riferendosi semplicemente alla forma artistica, perché è abbastanza chiaro che il nudo ha a che fare anche con la sessualità vissuta.
Essere spogliati è essere se stessi.
Essere nudi è essere visti spogliati e, tuttavia, non essere riconosciuti per se stessi. Per diventare un nudo, il corpo spogliato deve essere visto come un oggetto. (La vista del corpo nudo come oggetto ne stimola l’uso come oggetto.) Lo spogliarsi è rivelazione di sé. La nudità è esibizione.
Essere spogliati è essere senza maschere.
Essere esibiti significa che la superficie della propria pelle, i peli del proprio corpo, sono stati trasformati in una maschera da cui, in quella situazione, non ci si potrà più liberare. Il nudo è condannato a non essere mai spogliato. La nudità è una forma di abito. [John Berger, Questione di sguardi, Il Saggiatore, Milano 1998, pp. 55-56 (ed. or. 1972)]

 

Paradoxically, even John Berger’s challenge to Clark’s account of the nude only succeeds in inverting the naked/nude opposition. In Ways of Seeing (first published in 1972) Berger takes up Clark’s opposition but re- evaluates the terms. Whereas the nude is always subjected to pictorial conventions, ‘To be naked’, he writes, ‘is to be oneself’. To be naked is thus to be without disguise, to be free of the patriarchal conventions of western society. With this framework, Berger juxtaposes European oil paintings with photographs from soft- porn magazines, identifying the same range of poses, gestures and looks in both mediums. The particularity of the medium and cultural form is not important. What matters is the repertoire of conventions that all female nudes are believed to deploy, irrespective of historical or cultural specificity. […] Berger’s evocation of the hundred or so exceptions to the tradition of the female nude in European art assumes that the relationship between the male artist and the female model is inherently natural and good. Power, for Berger, is constituted as public. Private relationships lie outside the domain of power; love transforms the nude into a naked woman and prevents the male spectator, the outsider, from turning the female figure into a voyeuristic spectacle. So, for Berger, the naked is now the positive term and the nude is relegated to the inferior position within the opposition. What is undisturbed, however, is the implication that the naked is somehow freer from mediation, that it is semiotically more open and represents the body liberated from cultural intervention. [Lynda Nead, The Female Nude: Art, Obscenity, and Sexuality, Routledge & Kegan Paul, London and New York 1992]