Espressione / Scienza

La disamina delle espressioni del volto umano e delle specie animali applicabile alle arti figurative e performative, trova il suo presupposto nell’ambito della scienza, e in particolare nella psichiatria.
A tal proposito, la fisiognomica, apparsa in ambito medico intorno al V sec. a.C., è la disciplina pseudoscientifica che più di tutte studia le correlazioni che intercorrono tra i caratteri esteriori dell’individuo (intesi come i lineamenti del viso e le rispettive espressioni che essi producono), e le sue caratteristiche psicologiche.
Nel corso del Cinquecento le ricerche in ambito fisiognomico evolvono considerevolmente grazie alla pubblicazione del De humana physiognomonia. Convinto che “l’animo non è impassibile rispetto ai moti del corpo e, così come il corpo, si corrompe per le passioni”, Giovanni Battista Della Porta, filosofo e alchimista italiano, realizza nel 1586 la stesura di quattro volumi racchiusi sotto il titolo di cui sopra, corredati da numerose illustrazioni a dimostrazione delle sue teorie.
Osserva, nello specifico, i profili degli esseri umani comparandoli con quelli degli animali, trovandovi delle connessioni nelle loro fattezze fisiche che si esplicitano nella forma del volto o nell’assunzione di determinate espressioni.
Con la nascita della fotografia si assiste a una progressiva incursione del nuovo strumento nei trattati di tipo scientifico; le immagini detengono il ruolo di mostrare e dimostrare efficacemente e fedelmente al lettore, quanto espresso per iscritto.
A partire dal 1850 circa, un uomo di scienza, lo psichiatra britannico Hugh Welch Diamond utilizza il neonato mezzo fotografico per studiare, documentare e curare le malattie mentali di cui sono affette le pazienti nel manicomio nella contea di Surrey, a sud dell’Inghilterra.
Resoconto di tale indagine è il suo intervento On the application of Photography to the Physiognomic and Mental Phenomena of Insanity presentato durante una conferenza tenutasi nel maggio 1856 alla Royal Society of London. Diamond realizza una serie di ritratti su un fondale neutro a molte delle sue pazienti per enfatizzare la peculiarità della fotografia di abilitare quella che lui definisce la sfera metafisica. In tal modo si evidenziano le connessioni che intercorrono tra visibile e invisibile: la fisionomia e il linguaggio corporeo sono la manifestazione esteriore degli stati mentali. I ritratti fotografici, a suo avviso, rappresentano fedelmente le caratteristiche della malattia mentale nelle sue diverse forme e fasi di evoluzione, e sono un mezzo di registrazione infallibile per lo studio e il confronto da parte del medico. Inoltre egli sostiene che svolgano un ruolo non trascurabile nella presa di coscienza da parte dei pazienti del proprio stato mentale, riuscendo a mostrare loro una visione realistica della loro persona, piuttosto che quella distorta nella loro mente.
Pochi anni dopo il neurologo francese Guillaume-Benjamin Duchenne de Boulogne pubblica nel 1862 il volume Mécanisme de la Physionomie Humaine, una monografia che analizza le varie conformazioni dei muscoli dell’espressione facciale, accompagnata da un ricco atlante fotografico.
Duchenne induce artificialmente, tramite la somministrazione sul volto di lievi scosse elettriche, l’innesco delle contrazioni muscolari e fa documentare tali operazioni dal fotografo francese Adrien Alban Tournachon, fratello minore del più noto Nadar, convinto che la verità dei suoi esperimenti patognomici potesse essere resa efficacemente solo dalla fotografia, in quanto le espressioni del soggetto erano troppo effimere per poter essere disegnate. Il volume è diviso in due parti: una sezione scientifica, avente lo scopo di esibire le linee espressive del viso, e che si conclude con una disamina degli errori anatomici presenti in alcune opere scultoree di tradizione classica; e una sezione estetica che estende la ricerca sulle altre parti del corpo, per dimostrare come i gesti e le pose contribuiscano alla definizione delle espressioni delle passioni umane.
Charles Darwin riconosce fin da subito ai metodi utilizzati da Duchenne una validità scientifica, e ritiene che l’utilizzo delle fotografie ne Mécanisme de la Physionomie Humaine sia incredibilmente necessario alla sua comprensione, tanto che nel 1872 pubblica The Expression of the Emotions in Man and Animals, e chiede all’autore francese di poterne utilizzare alcune nel suo volume.
L’opera è la terza e ultima parte della sua trilogia sull’evoluzione iniziata tredici anni prima con On the Origin of Species, trattato cardine nella storia del progresso scientifico. Le teorie sostenute dallo scienziato britannico erano molto controverse in un’epoca in cui la maggioranza sosteneva ancora l’origine divina degli esseri umani ed era riluttante a credere che uomini e animali avessero origini comuni. Darwin contestava l’opinione prevalente che i muscoli del volto umano fossero una creazione divina per esprimere emozioni unicamente umane, ma affermava che i sentimenti interiori di umani e animali si manifestassero all’esterno in modi simili, attraverso un alfabeto espressivo analogo. A sostegno delle stesura scritta delle sue teorie, in The Expression of the Emotions in Man and Animals, notevole importanza riveste l’apparato iconografico: disegni, xilografie e trenta fotografie. L’autore della maggior parte di esse è Oscar Gustave Rejlander, pioniere della fotografia vittoriana che spesso è anche il modello delle immagini che realizza. Si tratta di mettere in scena, dinanzi all’obiettivo della camera, tutto un vocabolario gestuale e mimico che è connesso a una determinata emozione. Secondo Darwin, il fotografo di origine svedese era in grado di manipolare il gesto mimico, replicandolo nella maniera più convincente e autentica possibile, così da catturare le espressioni emotive nel modo in cui esse si verificano nella quotidianità.
Similmente accade nell’opera di Paolo Mantegazza, fisiologo e neurologo italiano che scrive la Fisiologia del dolore per esplicitare le sue teorie circa l’analogia mimica che accomuna la manifestazione dei dolori fisici e quella dei dolori morali. Gli esiti dei suoi studi sono avallati dalle ventitré tavole del compendio iconografico associato al suo Atlante della espressione del dolore pubblicato nel 1876. Ancora una volta la fotografia è lo strumento per validare lo studio scientifico.
Mantegazza realizza delle fotografie a diversi soggetti, e anche a se stesso per studiare le espressioni causate da dolori lievi e intensi, e tramite un riuso scientifico di fotografie che riproducono celebri opere d’arte nelle quali il pathos espressivo è un elemento narrativo, consolida la sua ipotesi circa il carattere metaforico della mimica.
Rispetto agli altri scienziati qui citati, Mantegazza svolge una ricerca che ha un intento fortemente antropologico, facendo emergere le differenze tra le espressioni di tipo biologico da quelle di tipo culturale, legate a contesti sociali o periodi storici definiti.
In tutti i casi enunciati, la fotografia viene utilizzata in un’ottica positivista, ovvero come criterio oggettivo di classificazione dei dati scientifici, anche quando questi appaiono in molti casi, ad oggi, controversi e faziosi.
Allo stesso tempo, e questo ne è il paradosso, la fotografia è la rappresentazione dell’immaginario dell’artista che la realizza, anche nei casi in cui l’artista è l’uomo di scienza.
Si assiste a un ruolo che è sempre duplice e divergente, proprio come sono speculari i mondi che la fotografia fa incontrare: scienza e arte, mondo visibile e mondo invisibile, corpo e spirito, espressioni facciali e peculiarità caratteriali. [Giordana Citti]

 

 

 

Ora, se è insistente, lo sguardo è sempre virtualmente pazzo: esso è al tempo stesso effetto di verità ed effetto di follia. Nel1881, animati da un bello spirito scientifico e procedendo in un’inchiesta sulla fisiognomonia dei malati, Galton e Mohamed pubblicarono alcune tavole di volti. Ovviamente, si concluse che la malattia non vi si poteva leggere. Ma siccome tutti quei malati mi guardano ancora, a quasi cento anni di distanza, io ho invece l’idea inversa: quella che chiunque guarda dritto negli occhi è pazzo. Il “destino” della Fotografia sarebbe dunque questo: facendomi credere (ma una volta su quante?) che ho trovato la “vera fotografia totale”, essa crea l’inconcepibile confusione trarealtà e verità; essa diventa al tempo stesso constatativa ed esclamativa; essa porta l’effigie a quel punto di follia in cui l’affetto (l’amore, la compassione, il lutto, l’impeto, il desiderio) è garante dell’essere. La Fotografia si avvicina allora effettivamente alla follia, raggiunge la “verità folle”. [Roland Barthes, La camera chiara, traduzione di Renzo Guidieri, Giulio Einaudi editore, Torino, 2003, p. 92]

* * *

The Metaphysician and Moralist, the Physician and Physiologist will approach such an in- quiry with their peculiar views, definitions and classifica- tions. The Photographer, on the other hand, needs in many cases no aid from any language of his own, but pre- fers rather to listen, with the picture before him, to the silent but telling language of nature. It is unnecessary for him to use the vague terms which denote a difference in the degree of mental suffering, as for instance, distress, sorrow, deep sorrow, grief, melancholy, anguish, despair; the picture speaks for itself with the most marked pres- sion and indicates the exact point which has been reached in the scale of unhappiness between the first sensation and its utmost height […] being shown from the life by the Photographer, arrest the atten- tion of the thoughtful observer more powerfully than any laboured description. […] Yet the Photographer secures with unerring accuracy the external phe- nomena of each passion, as the really certain indication of internal derangement, and exhibits to the eye the well known sympathy which exists between the diseased brain and the organs and features of the body. [Hugh Welch Diamond, On the Application of Photography to the Physiognomic and Mental Phenomena of Insanity, intervento scritto per la “Royal Society of London”, maggio 1856; in S.L. Gilman, The Face of Madness, Hugh W. Diamond and the Origin of Psychiatric Photography, Brunner-Mazel, New York, 1976]

                                                                                                                                                                            

Quella «storia psicologica per immagini dello spazio intermedio tra impulso e azione» che Warburg descrive nell’introduzione al Bilderatlas come scopo della sua ricerca, è affine a quella storia della psicologia di un’epoca che tenta di indagare Mantegazza: il primo volto a cercare i valori espressivi preformati nella rappresentazione della vita in movimento, il secondo deciso a dimostrare come tali valori espressivi siano culturalmente e socialmente determinati. Se in Mnemosyne l’immagine è il principale veicolo e supporto della tradizione culturale e della memoria sociale, che in determinate circostanze può essere «riattivata e scaricata», nell’Atlante del dolore l’immagine è il luogo privilegiato per comprendere la natura dell’espressione, per studiarla e inserirla in un orizzonte storico culturale di riferimento. Mantegazza si concentrò non solo sulle modalità di espressione del dolore ma soprattutto sull’intensità delle stesse, e si pose, come Warburg, il quesito di come gli affetti naturali potessero prendere forma e divenire culturali. [Jessica Murano, Aby Warburg e la cultura scientifica italiana. L’incontro con Paolo Mantegazza e Tito Vignoli, in «Il Mulino», Studi culturali n.1, Bologna, aprile 2017, p. 42]

 * * *  

Niobe sarebbe stata meno bella se la terribile emozione del suo spirito le avesse gonfiato la testa del sopracciglio obliquo come fa la natura, e se alcune linee di dolore le avessero solcato la parte mediana della fronte? Al contrario, niente è più commovente e attraente di una simile espressione di dolore su una fronte giovane, che di solito è così serena. [Guillaume Benjamin Duchenne de Boulogne, The mechanism of human facial expression, traduzione di R. Andrew Cuthbertson, Cambridge University Press, Paris, 1990, p.100]  

 

                                                                                                                              

 

 

 

 

La disamina delle espressioni del volto umano e delle specie animali applicabile alle arti figurative e performative, trova il suo presupposto nell’ambito della scienza, e in particolare nella psichiatria.
A tal proposito, la fisiognomica, apparsa in ambito medico intorno al V sec. a.C., è la disciplina pseudoscientifica che più di tutte studia le correlazioni che intercorrono tra i caratteri esteriori dell’individuo (intesi come i lineamenti del viso e le rispettive espressioni che essi producono), e le sue caratteristiche psicologiche.
Nel corso del Cinquecento le ricerche in ambito fisiognomico evolvono considerevolmente grazie alla pubblicazione del De humana physiognomonia. Convinto che “l’animo non è impassibile rispetto ai moti del corpo e, così come il corpo, si corrompe per le passioni”, Giovanni Battista Della Porta, filosofo e alchimista italiano, realizza nel 1586 la stesura di quattro volumi racchiusi sotto il titolo di cui sopra, corredati da numerose illustrazioni a dimostrazione delle sue teorie.
Osserva, nello specifico, i profili degli esseri umani comparandoli con quelli degli animali, trovandovi delle connessioni nelle loro fattezze fisiche che si esplicitano nella forma del volto o nell’assunzione di determinate espressioni.
Con la nascita della fotografia si assiste a una progressiva incursione del nuovo strumento nei trattati di tipo scientifico; le immagini detengono il ruolo di mostrare e dimostrare efficacemente e fedelmente al lettore, quanto espresso per iscritto.
A partire dal 1850 circa, un uomo di scienza, lo psichiatra britannico Hugh Welch Diamond utilizza il neonato mezzo fotografico per studiare, documentare e curare le malattie mentali di cui sono affette le pazienti nel manicomio nella contea di Surrey, a sud dell’Inghilterra.
Resoconto di tale indagine è il suo intervento On the application of Photography to the Physiognomic and Mental Phenomena of Insanity presentato durante una conferenza tenutasi nel maggio 1856 alla Royal Society of London. Diamond realizza una serie di ritratti su un fondale neutro a molte delle sue pazienti per enfatizzare la peculiarità della fotografia di abilitare quella che lui definisce la sfera metafisica. In tal modo si evidenziano le connessioni che intercorrono tra visibile e invisibile: la fisionomia e il linguaggio corporeo sono la manifestazione esteriore degli stati mentali. I ritratti fotografici, a suo avviso, rappresentano fedelmente le caratteristiche della malattia mentale nelle sue diverse forme e fasi di evoluzione, e sono un mezzo di registrazione infallibile per lo studio e il confronto da parte del medico. Inoltre egli sostiene che svolgano un ruolo non trascurabile nella presa di coscienza da parte dei pazienti del proprio stato mentale, riuscendo a mostrare loro una visione realistica della loro persona, piuttosto che quella distorta nella loro mente.
Pochi anni dopo il neurologo francese Guillaume-Benjamin Duchenne de Boulogne pubblica nel 1862 il volume Mécanisme de la Physionomie Humaine, una monografia che analizza le varie conformazioni dei muscoli dell’espressione facciale, accompagnata da un ricco atlante fotografico.
Duchenne induce artificialmente, tramite la somministrazione sul volto di lievi scosse elettriche, l’innesco delle contrazioni muscolari e fa documentare tali operazioni dal fotografo francese Adrien Alban Tournachon, fratello minore del più noto Nadar, convinto che la verità dei suoi esperimenti patognomici potesse essere resa efficacemente solo dalla fotografia, in quanto le espressioni del soggetto erano troppo effimere per poter essere disegnate. Il volume è diviso in due parti: una sezione scientifica, avente lo scopo di esibire le linee espressive del viso, e che si conclude con una disamina degli errori anatomici presenti in alcune opere scultoree di tradizione classica; e una sezione estetica che estende la ricerca sulle altre parti del corpo, per dimostrare come i gesti e le pose contribuiscano alla definizione delle espressioni delle passioni umane.
Charles Darwin riconosce fin da subito ai metodi utilizzati da Duchenne una validità scientifica, e ritiene che l’utilizzo delle fotografie ne Mécanisme de la Physionomie Humaine sia incredibilmente necessario alla sua comprensione, tanto che nel 1872 pubblica The Expression of the Emotions in Man and Animals, e chiede all’autore francese di poterne utilizzare alcune nel suo volume.
L’opera è la terza e ultima parte della sua trilogia sull’evoluzione iniziata tredici anni prima con On the Origin of Species, trattato cardine nella storia del progresso scientifico. Le teorie sostenute dallo scienziato britannico erano molto controverse in un’epoca in cui la maggioranza sosteneva ancora l’origine divina degli esseri umani ed era riluttante a credere che uomini e animali avessero origini comuni. Darwin contestava l’opinione prevalente che i muscoli del volto umano fossero una creazione divina per esprimere emozioni unicamente umane, ma affermava che i sentimenti interiori di umani e animali si manifestassero all’esterno in modi simili, attraverso un alfabeto espressivo analogo. A sostegno delle stesura scritta delle sue teorie, in The Expression of the Emotions in Man and Animals, notevole importanza riveste l’apparato iconografico: disegni, xilografie e trenta fotografie. L’autore della maggior parte di esse è Oscar Gustave Rejlander, pioniere della fotografia vittoriana che spesso è anche il modello delle immagini che realizza. Si tratta di mettere in scena, dinanzi all’obiettivo della camera, tutto un vocabolario gestuale e mimico che è connesso a una determinata emozione. Secondo Darwin, il fotografo di origine svedese era in grado di manipolare il gesto mimico, replicandolo nella maniera più convincente e autentica possibile, così da catturare le espressioni emotive nel modo in cui esse si verificano nella quotidianità.
Similmente accade nell’opera di Paolo Mantegazza, fisiologo e neurologo italiano che scrive la Fisiologia del dolore per esplicitare le sue teorie circa l’analogia mimica che accomuna la manifestazione dei dolori fisici e quella dei dolori morali. Gli esiti dei suoi studi sono avallati dalle ventitré tavole del compendio iconografico associato al suo Atlante della espressione del dolore pubblicato nel 1876. Ancora una volta la fotografia è lo strumento per validare lo studio scientifico.
Mantegazza realizza delle fotografie a diversi soggetti, e anche a se stesso per studiare le espressioni causate da dolori lievi e intensi, e tramite un riuso scientifico di fotografie che riproducono celebri opere d’arte nelle quali il pathos espressivo è un elemento narrativo, consolida la sua ipotesi circa il carattere metaforico della mimica.
Rispetto agli altri scienziati qui citati, Mantegazza svolge una ricerca che ha un intento fortemente antropologico, facendo emergere le differenze tra le espressioni di tipo biologico da quelle di tipo culturale, legate a contesti sociali o periodi storici definiti.
In tutti i casi enunciati, la fotografia viene utilizzata in un’ottica positivista, ovvero come criterio oggettivo di classificazione dei dati scientifici, anche quando questi appaiono in molti casi, ad oggi, controversi e faziosi.
Allo stesso tempo, e questo ne è il paradosso, la fotografia è la rappresentazione dell’immaginario dell’artista che la realizza, anche nei casi in cui l’artista è l’uomo di scienza.
Si assiste a un ruolo che è sempre duplice e divergente, proprio come sono speculari i mondi che la fotografia fa incontrare: scienza e arte, mondo visibile e mondo invisibile, corpo e spirito, espressioni facciali e peculiarità caratteriali. [Giordana Citti]

 

 

 

Ora, se è insistente, lo sguardo è sempre virtualmente pazzo: esso è al tempo stesso effetto di verità ed effetto di follia. Nel1881, animati da un bello spirito scientifico e procedendo in un’inchiesta sulla fisiognomonia dei malati, Galton e Mohamed pubblicarono alcune tavole di volti. Ovviamente, si concluse che la malattia non vi si poteva leggere. Ma siccome tutti quei malati mi guardano ancora, a quasi cento anni di distanza, io ho invece l’idea inversa: quella che chiunque guarda dritto negli occhi è pazzo. Il “destino” della Fotografia sarebbe dunque questo: facendomi credere (ma una volta su quante?) che ho trovato la “vera fotografia totale”, essa crea l’inconcepibile confusione trarealtà e verità; essa diventa al tempo stesso constatativa ed esclamativa; essa porta l’effigie a quel punto di follia in cui l’affetto (l’amore, la compassione, il lutto, l’impeto, il desiderio) è garante dell’essere. La Fotografia si avvicina allora effettivamente alla follia, raggiunge la “verità folle”. [Roland Barthes, La camera chiara, traduzione di Renzo Guidieri, Giulio Einaudi editore, Torino, 2003, p. 92]

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The Metaphysician and Moralist, the Physician and Physiologist will approach such an in- quiry with their peculiar views, definitions and classifica- tions. The Photographer, on the other hand, needs in many cases no aid from any language of his own, but pre- fers rather to listen, with the picture before him, to the silent but telling language of nature. It is unnecessary for him to use the vague terms which denote a difference in the degree of mental suffering, as for instance, distress, sorrow, deep sorrow, grief, melancholy, anguish, despair; the picture speaks for itself with the most marked pres- sion and indicates the exact point which has been reached in the scale of unhappiness between the first sensation and its utmost height […] being shown from the life by the Photographer, arrest the atten- tion of the thoughtful observer more powerfully than any laboured description. […] Yet the Photographer secures with unerring accuracy the external phe- nomena of each passion, as the really certain indication of internal derangement, and exhibits to the eye the well known sympathy which exists between the diseased brain and the organs and features of the body. [Hugh Welch Diamond, On the Application of Photography to the Physiognomic and Mental Phenomena of Insanity, intervento scritto per la “Royal Society of London”, maggio 1856; in S.L. Gilman, The Face of Madness, Hugh W. Diamond and the Origin of Psychiatric Photography, Brunner-Mazel, New York, 1976]

                                                                                                                                                                            

Quella «storia psicologica per immagini dello spazio intermedio tra impulso e azione» che Warburg descrive nell’introduzione al Bilderatlas come scopo della sua ricerca, è affine a quella storia della psicologia di un’epoca che tenta di indagare Mantegazza: il primo volto a cercare i valori espressivi preformati nella rappresentazione della vita in movimento, il secondo deciso a dimostrare come tali valori espressivi siano culturalmente e socialmente determinati. Se in Mnemosyne l’immagine è il principale veicolo e supporto della tradizione culturale e della memoria sociale, che in determinate circostanze può essere «riattivata e scaricata», nell’Atlante del dolore l’immagine è il luogo privilegiato per comprendere la natura dell’espressione, per studiarla e inserirla in un orizzonte storico culturale di riferimento. Mantegazza si concentrò non solo sulle modalità di espressione del dolore ma soprattutto sull’intensità delle stesse, e si pose, come Warburg, il quesito di come gli affetti naturali potessero prendere forma e divenire culturali. [Jessica Murano, Aby Warburg e la cultura scientifica italiana. L’incontro con Paolo Mantegazza e Tito Vignoli, in «Il Mulino», Studi culturali n.1, Bologna, aprile 2017, p. 42]

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Niobe sarebbe stata meno bella se la terribile emozione del suo spirito le avesse gonfiato la testa del sopracciglio obliquo come fa la natura, e se alcune linee di dolore le avessero solcato la parte mediana della fronte? Al contrario, niente è più commovente e attraente di una simile espressione di dolore su una fronte giovane, che di solito è così serena. [Guillaume Benjamin Duchenne de Boulogne, The mechanism of human facial expression, traduzione di R. Andrew Cuthbertson, Cambridge University Press, Paris, 1990, p.100]