Coscienza / Crisi

Lo studio fisiologico e scientifico del movimento e la raffigurazione del movimento espressivo condividono l’utilizzo del mezzo fotografico come strumento d’indagine, talvolta dando origine a un repertorio comune di forme e incontrandosi su un piano figurativo e stilistico. Dagli ultimi decenni dell’Ottocento si assiste a un grande progresso in campo scientifico e medico a cui contribuisce l’adozione della fotografia come strumento di laboratorio, permettendo la raccolta e la classificazione di patologie e casi di studio. Questi trovano nelle immagini la loro descrizione più obiettiva priva, secondo la considerazione diffusa, di qualsiasi azione volontaria e interpretativa dell’operatore. Tuttavia l’azione del fotografo perde la chiarezza delle sue intenzioni quando si entra nel territorio delle neuropatologie: qui le immagini sono volte a documentare una difformità su un piano che resterebbe invisibile se non si esternasse nell’azione del corpo, e vengono veicolate dalla visione del medico-fotografo in un’implicita commistione fra istanze scientifiche e creative. Uno degli ambienti chiave di questa fusione è la clinica dalla Salpêtrière, il cui reparto delle malattie nervose era presieduto da Jean Martin-Charcot, ritenuto il padre della neuropatologia francese grazie agli studi fra gli altri sull’isteria e all’interpretazione dei fenomeni ipnotici come espressione di anormalità nell’ambito dell’isteria.

Tra il 1876 e il 1880, nella «grande fabbrica di immagini» che è stata la Salpêtrière – come scrive nel suo noto saggio Georges Didi-Huberman che analizza l’isteria in quanto invenzione e rappresentazione costruita proprio attraverso l’immagine –, vengono pubblicati i tre tomi che compongono l’Iconographie photographique de la Salpêtrière, opera redatta da Désiré Magloire Bourneville e incentrata su un apparato di immagini realizzate da Paul Régnard. Qui l’osservazione clinica e fotografica procedevano di pari passo. Quest’ultima poteva dare prova della dimensione sepolta nel corpo, fonte di un disagio interiore – rigorosamente femminile –, manifestato attraverso i suoi sintomi visibili, ovvero gli eccessi di movimento e gestualità. Nell’Iconographie si trova perciò un repertorio scelto di posture dell’isteria che ritornano e che meglio rappresentano l’immaginario ad essa legato: torsioni del corpo, contrazioni localizzate soprattutto negli arti, teste riverse all’indietro come in estasi e slanci del petto in avanti al culmine della crisi. Osservando queste immagini emerge chiaramente la forte presenza del fotografo che opera un’accentuazione delle gestualità, avvicinando l’obiettivo al corpo delle donne quasi a toccarlo e decidendo egli stesso quali momenti cogliere per meglio raffigurare la follia.

L’insieme di pose tipiche vengono classificate inoltre nella tavola del «grande attacco isterico completo e regolare», realizzata da Paul Richer nel 1881 che divide la crisi in quattro periodi a loro volta ramificati in diverse tipologie e variazioni, contando in tutto ottantasei figure. Si compone così un ampio archivio visivo ancor più ricco di sfaccettature se si include un trattato successivo di Charcot e Richer: Les Démoniaques dans l’art, del 1887, attraverso cui i due medici facendo appello alla storia dell’arte realizzano una ricognizione delle opere pittoriche e grafiche raffiguranti convulsioni, fra possessioni, estasi religiose e mistiche, atte a confermare l’idea degli autori secondo la quale l’isteria è una presenza naturale che attraversa i secoli, connotata da processi fisici che nella storia sono rimasti immutati. È un archivio isteri-forme, prendendo l’espressione di Jonathan W. Marshall, che cerca un legame con la raffigurazione antica, come mostrano le figure della tabella di Richer: menadi nel pieno della loro ebbrezza dionisiaca, raffigurate con tuniche svolazzanti, che scoprono gran parte del corpo nudo, le quali, insieme ai capelli mossi, accentuano il movimento del corpo.

L’immaginario dell’antichità, che priva in parte dell’aspetto patologico queste raffigurazioni, crea un forte gancio con il trattato del musicologo e compositore Maurice Emmanuel, La Danse Grecque antique d’après les monuments figurés, che appare come un manuale in cui si ricostruisce la danza greca per mezzo delle raffigurazioni vascolari, dei monumenti figurativi, ma anche dei testi poetici e della letteratura sulla questione dell’orchestra. Tale opera si compone dunque della descrizione di gesti, posture e pose ricorrenti, e vengono forniti degli esercizi, a cui viene apportata la relativa illustrazione grafica.

Sulla base di questo dialogo è evidente il richiamo che si innesta fra l’immaginario figurativo radicato nella clinica della Salpêtrière e la cultura coreutica di inizio Novecento, la quale rinnova i propri linguaggi riscoprendo l’antico e i valori di cui è portatore. È un richiamo che si consolida ancor di più con il servizio fotografico che cerca di imprimere e veicolare attraverso le immagini una qualità del movimento delle pazienti, e una loro energia, che sfocia in una ricerca espressiva e rappresentativa.

È soprattutto una posa ricorrente, tanto nelle immagini della clinica quanto in quelle di danza, a legare i due mondi: l’arco, l’istante di una traiettoria al culmine della sua potenza, prodotto dallo slancio del petto in avanti e da una tensione che coinvolge il corpo nella sua interezza. In alcuni casi, l’opera fotografica della clinica condivide con l’iconografia della danza dei suoi tempi anche le tecniche e gli stili di raffigurazione, che si fanno veicolo delle stesse intenzioni, basti osservare lo scatto del fotografo tedesco Meinard Woldring all’inizio degli anni Quaranta e la tensione che il corpo della danzatrice, anonima, sembra comprimere e rilasciare allo stesso tempo. La prospettiva frontale e dal basso e la luce proveniente dalla stessa direzione, pongono l’accento sull’elemento del collo e sulla contrazione delle braccia in un momento di evidente sforzo muscolare. Inoltre, il mosso rende il movimento nel pieno del suo sviluppo condensando la sua durata nella percezione di una sua pulsazione continua. Con la stessa tecnica e spesso con lo stesso punto di vista, Paul Regnard raffigura le pazienti nell’Iconographie.

Sono numerosissimi gli esempi di danzatrici colte nella stessa postura arcuata, la quale imitando il passo tipico delle menadi incarna il simbolo di una liberazione del proprio corpo che infrange la codificazione della danza accademica per esplorare nuovi movimenti frutto di una ricerca individuale e interiore, ma allo stesso tempo universale, che ritrova il suo legame con la natura. Grete Wiesenthal, fotografata da Rudolf Jobst nel 1908, evoca questo slittamento: da ballerina classica all’Opera di Corte di Vienna, che lascia intorno al 1904, esplora una via creativa personale traendo ispirazione dalla tecnica del walzer e dal suo rapporto con la musica. Nella fotografia di Jobst, che rappresenta la coreografia Donauwalzer, sulle note di Strauss, la danzatrice è ripresa all’aperto sotto una forte luce che mette in risalto il collo esposto, alcuni lineamenti del volto emblematici come il sorriso evidente e gli occhi chiusi rivolti in sé stessi, le braccia distese con i pugni chiusi che dilatano l’apertura del petto, e i capelli che cadono sciolti verso il terreno. Inoltre, la proiezione del corpo nella sua direzione frontale è rafforzata dall’attrito che la direzione opposta dell’ombra crea.

La stessa postura la ritroviamo in uno scatto anonimo di Mary Wigman, emblema della danza espressionista tedesca, in un frammento di Dance of Suffering, del 1930. Se nell’immagine precedente l’arco del corpo sprigionava un’energia nel suo apice, qui sottolinea invece il completo abbandono e la sua vulnerabilità. La stessa dimensione di sofferenza viene rievocata nel ritratto della danzatrice polacca Jo Mihaly, del 1931, il cui volto è raffigurato in primo piano dall’alto e pone la stessa evidenza sull’elemento del collo, la cui linea qui culmina nel grido muto della danzatrice. La torsione del corpo così accentuata di volta in volta passa dal costituirsi come pura energia messa in campo, senza alcun significato specifico, al farsi veicolo di senso, al limite con la rappresentazione, innescando un’ambivalenza che si radica soprattutto nel contesto mitteleuropeo e tedesco fino al Tanztheater di Pina Bausch, dagli anni Settanta in poi.

Ma tornando agli anni Venti, nel pieno del fermento culturale e artistico, ancora un esempio di questa torsione si ritrova in un’immagine promozionale del film di Arnold Fanck del 1926, Der Heilige Berg (La montagna sacra), film interpretato da Leni Riefenstahl, regista cinematografica ma anche attrice e danzatrice. Il film, nonostante la differenza con il linguaggio fotografico, mostra con esso l’affinità nell’uso espressivo della luce, e offre la rarità di poter vedere la danza da cui è tratta l’immagine nel suo scorrere, seppur veicolata dal montaggio filmico. In questa fotografia il corpo di Riefenstahl appare luminoso grazie alla stoffa cangiante del vestito, e nettamente disegnato di fronte al fondo nero, schiarito intorno alla sagoma della danzatrice per amplificarne la profondità.

Fra tutti questi casi, cui se ne potrebbero aggiungere molti altri, uno in particolare, spostando l’attenzione sul contesto francese, emerge per la sua peculiarità: l’inaugurazione dell’Exposition Internationale du Surréalisme alla Galérie Beaux-Arts nel 1938, aperta dalla performance L’Acte manqué, di Hélène Vanel. La danzatrice, figura eclettica che si avvicina al movimento surrealista dopo aver studiato e lavorato negli anni Venti con Margaret Morris, non solo si ispira all’Iconographie photographique de la Salpêtrière, ma rimette in scena nella performance lo stesso immaginario, fino a ricostruire le celle delle pazienti. Tra l’utilizzo della fonte come simulazione e come impulso della danza, Vanel omaggia il corpo non ordinario delle cosiddette isteriche, anomalo dal punto di vista patologico, e ne fa un linguaggio espressivo.

 

Surveying the hysterical archive demonstrates how hysteriform poses and gestures initially visible within early modern demonical possession, exorcism, and religious ecstasy moved into the medical sphere during the eighteenth and nineteenth centuries, becoming a significant resource for international performing artists of the nineteenth and twentieth centuries. [Jonathan W. Marshall, Traumatic dances of “the non-self”. Bodily Incoherence and the Hysterical Archive, in Johanna Braun, Performing Hysteria, Leuven University Press, 2020, p. 63.]

 * * * 

La «scena» sarebbe dunque, in certo senso, come un’«idea», se consideriamo che le idee non avanzano senza membra, e allora non sono più idee ma membra, membra in guerra fra loro, poiché il mondo del mentale non fu mai altro se non ciò che resta di uno schiacciamento infernale di organi.
Smisurata aporia dell’«organico» e dello «psichico». Per un medico spesso sbalordito, ogni sintomo isterico esibì, fece mostra, perfino mise in mostra questa aporia. […]
Il fatto è che ogni tentativo di enunciare una catena causale riferita all’isteria resta problematico, si denuncia da sé. Certo, il «lavoro» di formazione dei sintomi isterici si lascia ricondurre a qualche meccanismo […]. Ma in tutto questo qualcosa rimarrà inenarrabile: […] tutto l’intreccio di visibilità che dipende dal puro fatto, fondamentale, ma molto enigmatico, che una pulsione viene a presentarsi: «atteggiamenti passionali». […]
Come si «causa» la visibilità isterica? [Georges Didi-Huberman, L’invenzione dell’isteria. Charcot e l’iconografia fotografica della Salpêtrière, Marietti, Bologna 2008, p. 204 (ed. or. 1982)]

 

Les danseurs grecs qui penchent en avant le Corps ou la Tête, qui eambrent le Corps et qui renversent la Tète, sont si nombreux sur les monuments, à toutes les époques de l’art hellénique, qu’ils semblent bien marquer les traditions les plus répandues et les plus vivaces de l’orchestique. Ont-elles leur origine dans les rites du culte dionysiaque? Ces mouvements excessifs et disgracieux tendaient-ils à exprimer la démence orgiastique? Il faut bien reconnaître qu’ils se retrouvent dans Imites les danses et qu’ils ne sont pas exclusivement pratiqués par les compagnons du thiase bachique. [Maurice Emmanuel, La Danse Grecque antique d’après les monuments figurés, Librairie Hachette et Cie, Paris 1896, p. 126]

 * * * 

Oscillant entre les différents pôles de la souffrance, du clownisme et de l’extase, la cambrure dorsale semble demeurer toujours ambivalente et a pour seule constante de n’exister que dans les extrêmes. En tant que Pathosformel possible, l’arc dorsal est bel et bien lié au pathologique, mais il varie en fonction du contexte que l’artiste lui attribue. Due au spasme d’un plaisir intense ou à une souffrance psychique, la cambrure est par excellence la posture de l’excès. Au niveau de la performance purement physique, elle est d’abord le résultat d’une tension musculaire maximale, ce qui la rend nécessairement excessive. Cet excès corporel engendre, à un niveau plus métaphorique, une sensation parallèle et exprime l’apogée d’une émotion à outrance. [Céline Eidenbenz, «L’âme renversée»: L’arc hystérique et ses corps à rebours autour de 1900, in Pulsion(s). Art et déraison, cat. exp., Musée Félicien Rops, Renaissance du Livre, Namur/Waterloo 2012, pp. 51-89]

 

Il concetto di «energia» generalmente è un concetto che si associa all’impeto esterno, al grido, all’eccesso di attività nervosa e muscolare. Ma qui indica anche qualcosa di intimo, che pulsa nell’immobilità e nel silenzio, una forza trattenuta che fluisce nel tempo senza diffondersi necessariamente nello spazio. [Il ritmo come principio scenico, a cura di Roberto Ciancarelli, Dino Audino, Roma 2016, p. 67]

 * * *

Ici la photographie instantanée s’impose et va nous permettre d’étudier des phénomenès que l’œil ne saurait le plus souvent analyser avec assez de précision. […] Faison au contraire une épreuve moins rapide pour que la netteté des parties en mouvement ne soit pas atteinte, nous obtiendrons un certain flou qui sera d’autant plus pronuncé que l’amplitude du mouvement sera plus grande. Cette épreuve aura évidemment un pluse grande valeur, car elle montrera d’une part les membres atteints de tremblement et de l’autre, dans une certaines mesure, l’intensité de ces mouvements. [Albert Londe, La photographie moderne. Traité pratique de la photographie, G. Masson, Paris 1896, pp. 656-657]

 * * *

Charcot una volta le aveva spiegato che sognava una situazione in cui l’uomo, l’essere umano in sé, potesse liberarsi da ciò che lo circondava, o meglio da ciò che lo aveva creato. A volte usa il termine “macchina” come sinonimo di “come un animale”. Ovvero con sentimenti più puri di quelli umani.
Quella purezza! Così spaventosa. [Per Olov Enquist, Il libro di Blanche e Marie, Iperborea, Milano 2006, p. 175]

 

 

 

 

Lo studio fisiologico e scientifico del movimento e la raffigurazione del movimento espressivo condividono l’utilizzo del mezzo fotografico come strumento d’indagine, talvolta dando origine a un repertorio comune di forme e incontrandosi su un piano figurativo e stilistico. Dagli ultimi decenni dell’Ottocento si assiste a un grande progresso in campo scientifico e medico a cui contribuisce l’adozione della fotografia come strumento di laboratorio, permettendo la raccolta e la classificazione di patologie e casi di studio. Questi trovano nelle immagini la loro descrizione più obiettiva priva, secondo la considerazione diffusa, di qualsiasi azione volontaria e interpretativa dell’operatore. Tuttavia l’azione del fotografo perde la chiarezza delle sue intenzioni quando si entra nel territorio delle neuropatologie: qui le immagini sono volte a documentare una difformità su un piano che resterebbe invisibile se non si esternasse nell’azione del corpo, e vengono veicolate dalla visione del medico-fotografo in un’implicita commistione fra istanze scientifiche e creative. Uno degli ambienti chiave di questa fusione è la clinica dalla Salpêtrière, il cui reparto delle malattie nervose era presieduto da Jean Martin-Charcot, ritenuto il padre della neuropatologia francese grazie agli studi fra gli altri sull’isteria e all’interpretazione dei fenomeni ipnotici come espressione di anormalità nell’ambito dell’isteria.

Tra il 1876 e il 1880, nella «grande fabbrica di immagini» che è stata la Salpêtrière – come scrive nel suo noto saggio Georges Didi-Huberman che analizza l’isteria in quanto invenzione e rappresentazione costruita proprio attraverso l’immagine –, vengono pubblicati i tre tomi che compongono l’Iconographie photographique de la Salpêtrière, opera redatta da Désiré Magloire Bourneville e incentrata su un apparato di immagini realizzate da Paul Régnard. Qui l’osservazione clinica e fotografica procedevano di pari passo. Quest’ultima poteva dare prova della dimensione sepolta nel corpo, fonte di un disagio interiore – rigorosamente femminile –, manifestato attraverso i suoi sintomi visibili, ovvero gli eccessi di movimento e gestualità. Nell’Iconographie si trova perciò un repertorio scelto di posture dell’isteria che ritornano e che meglio rappresentano l’immaginario ad essa legato: torsioni del corpo, contrazioni localizzate soprattutto negli arti, teste riverse all’indietro come in estasi e slanci del petto in avanti al culmine della crisi. Osservando queste immagini emerge chiaramente la forte presenza del fotografo che opera un’accentuazione delle gestualità, avvicinando l’obiettivo al corpo delle donne quasi a toccarlo e decidendo egli stesso quali momenti cogliere per meglio raffigurare la follia.

L’insieme di pose tipiche vengono classificate inoltre nella tavola del «grande attacco isterico completo e regolare», realizzata da Paul Richer nel 1881 che divide la crisi in quattro periodi a loro volta ramificati in diverse tipologie e variazioni, contando in tutto ottantasei figure. Si compone così un ampio archivio visivo ancor più ricco di sfaccettature se si include un trattato successivo di Charcot e Richer: Les Démoniaques dans l’art, del 1887, attraverso cui i due medici facendo appello alla storia dell’arte realizzano una ricognizione delle opere pittoriche e grafiche raffiguranti convulsioni, fra possessioni, estasi religiose e mistiche, atte a confermare l’idea degli autori secondo la quale l’isteria è una presenza naturale che attraversa i secoli, connotata da processi fisici che nella storia sono rimasti immutati. È un archivio isteri-forme, prendendo l’espressione di Jonathan W. Marshall, che cerca un legame con la raffigurazione antica, come mostrano le figure della tabella di Richer: menadi nel pieno della loro ebbrezza dionisiaca, raffigurate con tuniche svolazzanti, che scoprono gran parte del corpo nudo, le quali, insieme ai capelli mossi, accentuano il movimento del corpo.

L’immaginario dell’antichità, che priva in parte dell’aspetto patologico queste raffigurazioni, crea un forte gancio con il trattato del musicologo e compositore Maurice Emmanuel, La Danse Grecque antique d’après les monuments figurés, che appare come un manuale in cui si ricostruisce la danza greca per mezzo delle raffigurazioni vascolari, dei monumenti figurativi, ma anche dei testi poetici e della letteratura sulla questione dell’orchestra. Tale opera si compone dunque della descrizione di gesti, posture e pose ricorrenti, e vengono forniti degli esercizi, a cui viene apportata la relativa illustrazione grafica.

Sulla base di questo dialogo è evidente il richiamo che si innesta fra l’immaginario figurativo radicato nella clinica della Salpêtrière e la cultura coreutica di inizio Novecento, la quale rinnova i propri linguaggi riscoprendo l’antico e i valori di cui è portatore. È un richiamo che si consolida ancor di più con il servizio fotografico che cerca di imprimere e veicolare attraverso le immagini una qualità del movimento delle pazienti, e una loro energia, che sfocia in una ricerca espressiva e rappresentativa.

È soprattutto una posa ricorrente, tanto nelle immagini della clinica quanto in quelle di danza, a legare i due mondi: l’arco, l’istante di una traiettoria al culmine della sua potenza, prodotto dallo slancio del petto in avanti e da una tensione che coinvolge il corpo nella sua interezza. In alcuni casi, l’opera fotografica della clinica condivide con l’iconografia della danza dei suoi tempi anche le tecniche e gli stili di raffigurazione, che si fanno veicolo delle stesse intenzioni, basti osservare lo scatto del fotografo tedesco Meinard Woldring all’inizio degli anni Quaranta e la tensione che il corpo della danzatrice, anonima, sembra comprimere e rilasciare allo stesso tempo. La prospettiva frontale e dal basso e la luce proveniente dalla stessa direzione, pongono l’accento sull’elemento del collo e sulla contrazione delle braccia in un momento di evidente sforzo muscolare. Inoltre, il mosso rende il movimento nel pieno del suo sviluppo condensando la sua durata nella percezione di una sua pulsazione continua. Con la stessa tecnica e spesso con lo stesso punto di vista, Paul Regnard raffigura le pazienti nell’Iconographie.

Sono numerosissimi gli esempi di danzatrici colte nella stessa postura arcuata, la quale imitando il passo tipico delle menadi incarna il simbolo di una liberazione del proprio corpo che infrange la codificazione della danza accademica per esplorare nuovi movimenti frutto di una ricerca individuale e interiore, ma allo stesso tempo universale, che ritrova il suo legame con la natura. Grete Wiesenthal, fotografata da Rudolf Jobst nel 1908, evoca questo slittamento: da ballerina classica all’Opera di Corte di Vienna, che lascia intorno al 1904, esplora una via creativa personale traendo ispirazione dalla tecnica del walzer e dal suo rapporto con la musica. Nella fotografia di Jobst, che rappresenta la coreografia Donauwalzer, sulle note di Strauss, la danzatrice è ripresa all’aperto sotto una forte luce che mette in risalto il collo esposto, alcuni lineamenti del volto emblematici come il sorriso evidente e gli occhi chiusi rivolti in sé stessi, le braccia distese con i pugni chiusi che dilatano l’apertura del petto, e i capelli che cadono sciolti verso il terreno. Inoltre, la proiezione del corpo nella sua direzione frontale è rafforzata dall’attrito che la direzione opposta dell’ombra crea.

La stessa postura la ritroviamo in uno scatto anonimo di Mary Wigman, emblema della danza espressionista tedesca, in un frammento di Dance of Suffering, del 1930. Se nell’immagine precedente l’arco del corpo sprigionava un’energia nel suo apice, qui sottolinea invece il completo abbandono e la sua vulnerabilità. La stessa dimensione di sofferenza viene rievocata nel ritratto della danzatrice polacca Jo Mihaly, del 1931, il cui volto è raffigurato in primo piano dall’alto e pone la stessa evidenza sull’elemento del collo, la cui linea qui culmina nel grido muto della danzatrice. La torsione del corpo così accentuata di volta in volta passa dal costituirsi come pura energia messa in campo, senza alcun significato specifico, al farsi veicolo di senso, al limite con la rappresentazione, innescando un’ambivalenza che si radica soprattutto nel contesto mitteleuropeo e tedesco fino al Tanztheater di Pina Bausch, dagli anni Settanta in poi.

Ma tornando agli anni Venti, nel pieno del fermento culturale e artistico, ancora un esempio di questa torsione si ritrova in un’immagine promozionale del film di Arnold Fanck del 1926, Der Heilige Berg (La montagna sacra), film interpretato da Leni Riefenstahl, regista cinematografica ma anche attrice e danzatrice. Il film, nonostante la differenza con il linguaggio fotografico, mostra con esso l’affinità nell’uso espressivo della luce, e offre la rarità di poter vedere la danza da cui è tratta l’immagine nel suo scorrere, seppur veicolata dal montaggio filmico. In questa fotografia il corpo di Riefenstahl appare luminoso grazie alla stoffa cangiante del vestito, e nettamente disegnato di fronte al fondo nero, schiarito intorno alla sagoma della danzatrice per amplificarne la profondità.

Fra tutti questi casi, cui se ne potrebbero aggiungere molti altri, uno in particolare, spostando l’attenzione sul contesto francese, emerge per la sua peculiarità: l’inaugurazione dell’Exposition Internationale du Surréalisme alla Galérie Beaux-Arts nel 1938, aperta dalla performance L’Acte manqué, di Hélène Vanel. La danzatrice, figura eclettica che si avvicina al movimento surrealista dopo aver studiato e lavorato negli anni Venti con Margaret Morris, non solo si ispira all’Iconographie photographique de la Salpêtrière, ma rimette in scena nella performance lo stesso immaginario, fino a ricostruire le celle delle pazienti. Tra l’utilizzo della fonte come simulazione e come impulso della danza, Vanel omaggia il corpo non ordinario delle cosiddette isteriche, anomalo dal punto di vista patologico, e ne fa un linguaggio espressivo.

 

Surveying the hysterical archive demonstrates how hysteriform poses and gestures initially visible within early modern demonical possession, exorcism, and religious ecstasy moved into the medical sphere during the eighteenth and nineteenth centuries, becoming a significant resource for international performing artists of the nineteenth and twentieth centuries. [Jonathan W. Marshall, Traumatic dances of “the non-self”. Bodily Incoherence and the Hysterical Archive, in Johanna Braun, Performing Hysteria, Leuven University Press, 2020, p. 63.]

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La «scena» sarebbe dunque, in certo senso, come un’«idea», se consideriamo che le idee non avanzano senza membra, e allora non sono più idee ma membra, membra in guerra fra loro, poiché il mondo del mentale non fu mai altro se non ciò che resta di uno schiacciamento infernale di organi.
Smisurata aporia dell’«organico» e dello «psichico». Per un medico spesso sbalordito, ogni sintomo isterico esibì, fece mostra, perfino mise in mostra questa aporia. […]
Il fatto è che ogni tentativo di enunciare una catena causale riferita all’isteria resta problematico, si denuncia da sé. Certo, il «lavoro» di formazione dei sintomi isterici si lascia ricondurre a qualche meccanismo […]. Ma in tutto questo qualcosa rimarrà inenarrabile: […] tutto l’intreccio di visibilità che dipende dal puro fatto, fondamentale, ma molto enigmatico, che una pulsione viene a presentarsi: «atteggiamenti passionali». […]
Come si «causa» la visibilità isterica? [Georges Didi-Huberman, L’invenzione dell’isteria. Charcot e l’iconografia fotografica della Salpêtrière, Marietti, Bologna 2008, p. 204 (ed. or. 1982)]

 

Les danseurs grecs qui penchent en avant le Corps ou la Tête, qui eambrent le Corps et qui renversent la Tète, sont si nombreux sur les monuments, à toutes les époques de l’art hellénique, qu’ils semblent bien marquer les traditions les plus répandues et les plus vivaces de l’orchestique. Ont-elles leur origine dans les rites du culte dionysiaque? Ces mouvements excessifs et disgracieux tendaient-ils à exprimer la démence orgiastique? Il faut bien reconnaître qu’ils se retrouvent dans Imites les danses et qu’ils ne sont pas exclusivement pratiqués par les compagnons du thiase bachique. [Maurice Emmanuel, La Danse Grecque antique d’après les monuments figurés, Librairie Hachette et Cie, Paris 1896, p. 126]

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Oscillant entre les différents pôles de la souffrance, du clownisme et de l’extase, la cambrure dorsale semble demeurer toujours ambivalente et a pour seule constante de n’exister que dans les extrêmes. En tant que Pathosformel possible, l’arc dorsal est bel et bien lié au pathologique, mais il varie en fonction du contexte que l’artiste lui attribue. Due au spasme d’un plaisir intense ou à une souffrance psychique, la cambrure est par excellence la posture de l’excès. Au niveau de la performance purement physique, elle est d’abord le résultat d’une tension musculaire maximale, ce qui la rend nécessairement excessive. Cet excès corporel engendre, à un niveau plus métaphorique, une sensation parallèle et exprime l’apogée d’une émotion à outrance. [Céline Eidenbenz, «L’âme renversée»: L’arc hystérique et ses corps à rebours autour de 1900, in Pulsion(s). Art et déraison, cat. exp., Musée Félicien Rops, Renaissance du Livre, Namur/Waterloo 2012, pp. 51-89]

 

Il concetto di «energia» generalmente è un concetto che si associa all’impeto esterno, al grido, all’eccesso di attività nervosa e muscolare. Ma qui indica anche qualcosa di intimo, che pulsa nell’immobilità e nel silenzio, una forza trattenuta che fluisce nel tempo senza diffondersi necessariamente nello spazio. [Il ritmo come principio scenico, a cura di Roberto Ciancarelli, Dino Audino, Roma 2016, p. 67]

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Ici la photographie instantanée s’impose et va nous permettre d’étudier des phénomenès que l’œil ne saurait le plus souvent analyser avec assez de précision. […] Faison au contraire une épreuve moins rapide pour que la netteté des parties en mouvement ne soit pas atteinte, nous obtiendrons un certain flou qui sera d’autant plus pronuncé que l’amplitude du mouvement sera plus grande. Cette épreuve aura évidemment un pluse grande valeur, car elle montrera d’une part les membres atteints de tremblement et de l’autre, dans une certaines mesure, l’intensité de ces mouvements. [Albert Londe, La photographie moderne. Traité pratique de la photographie, G. Masson, Paris 1896, pp. 656-657]

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Charcot una volta le aveva spiegato che sognava una situazione in cui l’uomo, l’essere umano in sé, potesse liberarsi da ciò che lo circondava, o meglio da ciò che lo aveva creato. A volte usa il termine “macchina” come sinonimo di “come un animale”. Ovvero con sentimenti più puri di quelli umani.
Quella purezza! Così spaventosa. [Per Olov Enquist, Il libro di Blanche e Marie, Iperborea, Milano 2006, p. 175]