Espressione / Arti visive

L’esteriorizzazione del “moto interiore” costituisce nel panorama delle arti figurative, fin dall’antichità, un aspetto sostanziale per la creazione di un’affinità empatica con l’opera.
In un contesto estremamente eterogeneo, che va dai momenti di intenso pathos a quelli più intimi e introspettivi, il carattere e le motivazioni dei soggetti si rivelano attraverso l’espressione corporea, e in particolar modo tramite la mimica facciale.
Nel mondo delle immagini l’assenza della parola scritta (se si esclude il ruolo esplicativo della didascalia) rafforza inevitabilmente l’azione del linguaggio corporeo, che diviene manifestazione dello stato emotivo dei soggetti ritratti, e anche dell’autore stesso.
Le rappresentazioni artistiche inerenti al mondo sacro e religioso sono un terreno ove l’intensificazione e la spettacolarizzazione del sentimento veicolano una vasta gamma di messaggi. Uno di questi è il pentimento, un monito per non reiterare gli errori commessi trasmesso attraverso un canale universale più efficace di quello delle parabole scritte: quello delle arti visive.
La fotografia percorre tre diverse traiettorie nella rivisitazione dei temi sacri.
La prima è quando riproduce le opere d’arte, tra cui ampio spazio è occupato da quelle a tema religioso. Sono molteplici le campagne di riproduzione di opere pittoriche e scultoree all’interno di musei che circolano su cataloghi, libri e archivi.
Un’altra possibilità avviene quando gli artisti reinterpretano con il mezzo fotografico un’opera d’arte realizzata spesso nell’antichità, e lo fanno decontestualizzandola e sottraendola alla sua stessa natura, donandole una nuova materia, e una nuova visione.
Ne Il Compianto di Niccolò dell’Arca visto attraverso lo sguardo di Nino Migliori, in Study for Laokoon dello scultore Constantin Brâncuși e in Guerrier en cours de modelage di Emile-Antoine Bourdelle la rilettura delle opere scultoree è veicolata da un fortissimo accento posto sulla potenza mimica di quei volti, che irrompe decisa nell’immagine coinvolgendo fatalmente anche lo spirito dello spettatore.
Diversamente accade quando il fotografo decide di “mettere in scena” una rappresentazione sacra, restituendola in modo assoluto al mezzo fotografico.
Nel caso della serie di autoritratti The Seven Words di Fred Holland Day, l’autore interpreta Gesù sulla croce che pronuncia le sue ultime sette parole.
La sofferenza che scolpisce il volto di Cristo viene scandita in sette pannelli che si articolano lungo un polittico, e in ognuno di essi viene mostrata interpretandola di volta in volta dal fotografo con una diversa intensità emotiva.
Nell’opera di Kishin Shinoyama, il corpo dello scrittore Yukio Mishima accoglie e incarna le forme e il dolore di San Sebastiano, martire della fede cristiana, celebrato da numerosi artisti tra cui Guido Reni. Un corpo espressivo per antonomasia, che riverbera in un altro corpo parimenti espressivo, che è fascinoso e desiderabile allo stesso tempo malgrado il suo martirio.
L’accostamento di un’opera pittorica con un’opera fotografica rende evidente che le ricerche sul linguaggio espressivo corporeo come veicolo di esternazione dello spirito e degli stati d’animo hanno radici molto lontane.
Nel 1667 Charles Le Brun, pittore e decoratore francese, nonché primo pittore di Luigi XIV, tiene presso l’Accademia Reale di Pittura e Scultura un ciclo di conferenze che hanno come oggetto “l’espressione generale e particolare” dei lineamenti del volto, analizzando le passioni umane che rappresentano i moti dell’anima. Quest’ultima, in accordo con la teoria di Cartesio, ha sede nella ghiandola pineale al centro del cervello dove si raccolgono le impressioni esterne prima di confluire nello spirito e che sono rese manifeste per mezzo della mobilità delle sopracciglia.
Il pittore francese progetta quarantuno maschere delle passioni nelle quali ogni cambiamento psicologico viene determinato dalla risposta che si realizza nel movimento degli archi sopraccigliari, divenendo così uno dei più grandi antesignani della tradizione rappresentativa della fisiognomica.
Moltissimi anni dopo le maschere di Le Brun cambiano supporto e modalità di realizzazione, rinnovano i loro intenti, ma rimangono un modello concettuale riconoscibile in alcuni progetti artistici.
Ne fornisce un esempio la serie di ritratti Metamorphosis through Light che Helmar Lerski, fotografo tedesco naturalizzato svizzero, realizza tra il 1935 e il 1937 un’indagine visiva sull’azione espressiva della luce, che determina una continua trasmutazione delle forme. Lerski lavora anche nel cinema, e non a caso inizia proprio dal cinema espressionista, lavorando sul set di Metropolis. La rilevanza dell’azione simbolica e narrativa della luce, e della relativa ombra, è peculiarità assoluta in questo territorio espressivo.
In Metamorphosis through Light, fotografa ripetutamente il volto di un uomo, interessato a mostrare la sua mutevolezza, la sua astrazione. Lo decontestualizza, lo indaga da diversi punti di vista, svelandone di volta in volta un carattere che sembrava non esistere l’attimo prima. Ogni scatto è un’epifania di quel volto.
Il cinema è un mezzo artistico che presuppone, quasi sempre, la presenza di un attore che interpreta un personaggio e perciò il linguaggio espressivo del corpo e del volto ne è un aspetto fondante. Il teorico e regista russo Lev Kuleshov affrontò tali tematiche ricorrendo agli insegnamenti di François Delsarte, evidenziando anche nel cinema l’importanza del ritmo come forma del movimento. Ritmo che viene scandito dal montaggio, aspetto narrativo/sintattico e di comprensione psicologica dei personaggi. L’espressione emotiva che risiede nello sguardo in camera del protagonista è veicolata da ciò che nella sequenza prima o dopo viene mostrato allo spettatore.
Per il lavoro sul corpo espressivo Kuleshov richiedeva agli attori una quasi totale immobilità e consigliava di immaginare l’esibizione come una sequenza di pose e transizioni ritmiche, precetti di derivazione Delsartiana, affermando che l’azione smisurata non appartenesse al codice morfologico cinematografico che difatti è una successione di immagini fisse che creano l’illusione del movimento.
Un montaggio di pose e gesti è quanto ritroviamo anche nell’acquaforte di Francesco Novelli che mostra Emma Lady Hamilton, performer inglese degli ultimi decenni del Settecento, nell’esecuzione scandita delle sue Attitudes, esibizioni mute che prevedevano pose singole provenienti dalla statuaria classica o raffigurate nei dipinti antichi e moderni. Altre volte si trattava di brevissime azioni drammatiche, in cui impersonava Medea, Cassandra, diveniva baccante o fanciulla del popolo.
Le sue pose sono un terreno di contaminazione assoluta tra arti figurative e teatrali, dove lo studio minuzioso e intenso del linguaggio gestuale e fisiognomico è garante della veridicità della performance e conseguentemente del coinvolgimento emotivo del pubblico.
L’attenzione che le diverse forme d’arte hanno posto fin dall’antichità alla mimica, al gesto e a tutti gli aspetti del linguaggio non verbale, rende manifesta la necessità di trovare un aspetto visibile che sia effigie dell’appartato emotivo e invisibile che anima l’essere umano. [Giordana Citti]

 

 

 

Dans son atelier parisien, le sculpteur procède ainsi à des mises en scène des fragments et des études du Monument des Combattants. Assité d’un praticien, il les éclaire à l’aide de lampes à pétrole afin d’en faire ressortir l’expressivité dramatique. La lumière permet ainsi de mettre l’accent sur la gestualité de ses figures, à l’instar de certaines photographies de Steichen. [De bruit et de fureur: Bourdelle sculpteur et photographe, sous la direction de Chloë Théault, Le Passage, Musée Ingres à Montauban, Musée Bourdelle à Paris, 2016, p. 156]  

 * * *

Capitava infatti, soprattutto nel grande studio di Meudon popolato da statue finite e in lavorazione, e da copie o frammenti di sculture antiche, che il maestro mostrasse ad allievi e ospiti il suo rito di animazione dei marmi, simulando il modo in cui dovevano apparire agli uomini dell’antichità. Con una candela o una torcia a petrolio Rodin le illuminava una a una, facendole emergere dall’oscurità e lasciando che sulla loro superficie si agitassero le ombre proiettate dalla fiamma tremolante. Avvicinava la fonte di luce a questi corpi /fantasmi, ne svelava la tessitura, la materia, gli elementi più minuti, faceva danzare le ombre sulle loro forme cambiando i loro connotati e smuovendole dalla loro fissità, interrogandole e osservando le loro vibrazioni. La visione del marmo vivo coinvolto in questa danza suggestiva, e quindi l’intensificazione dell’espressività della figura grazie alla luce, trova nella fotografia un terreno di sperimentazione fertile e accorcia le distanze tra arte visiva e teatro. [Samantha Marenzi, Immagini di danza, Editoria & Spettacolo, Spoleto (PG), 2018, p. 301] 

 * * *  

Non si può dire che sulla nave me la sia passata molto allegramente. Dodici giorni d’acqua vanno bene per un pesce e per un esploratore di professione, ma per gente di terra sono molti. Non ho imparato a parlare né in francese né in spagnolo, ma ho sviluppato l’espressività del viso, visto che mi esprimo con la mimica. [Lilja Jur’evna Brik, Vladimir Vladimirovič Majakovskij, L’amore è il cuore di tutte le cose, a cura di Bengt Jangfeldt, traduzione di Serena Prina, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005, p. 212]

 

Il gesto a ben definirlo non è se non se il movimento esteriore del corpo e del volto; una delle prime espressioni del sentimento, date all’uomo dalla natura. L’uomo ha sentito da che ha respirato; e i suoni della voce, i movimenti diversi del volto e del corpo, sono state le espressioni da che ha cominciato ad aver senso; essi furono la lingua primitiva dell’universo fino dai suoi primordi, e lo sono ancora di tutti gli uomini nella loro infanzia. Per parlare del gesto in una maniera utile alle arti è necessario considerarlo nei suoi punti di vista differenti; ma in qualunque maniera si riguardi, è indispensabile di vederlo sempre come espressione; questa è la sua funzione primitiva, ed è per quest’attributo stabilito dalle leggi della natura, ch’egli abbellisce quell’arte, a cui s’unisce per divenirne una parte principale, e darle così anima, forma, e vigore […] I gesti affettivi poi sono la pittura dell’anima; servono la natura allorquando vuole sviluppare se stessa, e si abbandonano totalmente alle impressioni, che da quella ricevono. Tali gesti sono appunto l’anima del discorso, e contengono tutte le attitudini del corpo, siccome ancora tutti i suoi movimenti. [Antonio Morrocchesi, Lezioni di declamazione e d’arte teatrale, Tipografia all’insegna di Dante, Firenze 1832, pp. 243-250]

 * * *

Tendiamo a proiettare vita e espressione sull’immagine arrestata e ad aggiungere in base alla nostra esperienza ciò che non è presente. Perciò il ritrattista che voglia compensare la mancanza di movimento deve innanzitutto mobilitare la nostra proiezione. Egli deve sfruttare le ambiguità della faccia immobilizzata in modo che le molteplicità delle possibili letture diano luogo alla parvenza di vita. La faccia immobile deve apparire come un punto nodale di molti possibili movimenti espressivi. Come mi ha detto una volta una fotografa professionista con un’esagerazione scusabile, lei ricerca l’espressione che implica tutte le altre. [Ernst H. Gombrich, La maschera e la faccia: la percezione della fisionomia nella vita e nell’arte, traduzione di Luca Fontana, in Arte, percezione e realtà, Einaudi, Torino 1978, p. 178]

L’esteriorizzazione del “moto interiore” costituisce nel panorama delle arti figurative, fin dall’antichità, un aspetto sostanziale per la creazione di un’affinità empatica con l’opera.
In un contesto estremamente eterogeneo, che va dai momenti di intenso pathos a quelli più intimi e introspettivi, il carattere e le motivazioni dei soggetti si rivelano attraverso l’espressione corporea, e in particolar modo tramite la mimica facciale.
Nel mondo delle immagini l’assenza della parola scritta (se si esclude il ruolo esplicativo della didascalia) rafforza inevitabilmente l’azione del linguaggio corporeo, che diviene manifestazione dello stato emotivo dei soggetti ritratti, e anche dell’autore stesso.
Le rappresentazioni artistiche inerenti al mondo sacro e religioso sono un terreno ove l’intensificazione e la spettacolarizzazione del sentimento veicolano una vasta gamma di messaggi. Uno di questi è il pentimento, un monito per non reiterare gli errori commessi trasmesso attraverso un canale universale più efficace di quello delle parabole scritte: quello delle arti visive.
La fotografia percorre tre diverse traiettorie nella rivisitazione dei temi sacri.
La prima è quando riproduce le opere d’arte, tra cui ampio spazio è occupato da quelle a tema religioso. Sono molteplici le campagne di riproduzione di opere pittoriche e scultoree all’interno di musei che circolano su cataloghi, libri e archivi.
Un’altra possibilità avviene quando gli artisti reinterpretano con il mezzo fotografico un’opera d’arte realizzata spesso nell’antichità, e lo fanno decontestualizzandola e sottraendola alla sua stessa natura, donandole una nuova materia, e una nuova visione.
Ne Il Compianto di Niccolò dell’Arca visto attraverso lo sguardo di Nino Migliori, in Study for Laokoon dello scultore Constantin Brâncuși e in Guerrier en cours de modelage di Emile-Antoine Bourdelle la rilettura delle opere scultoree è veicolata da un fortissimo accento posto sulla potenza mimica di quei volti, che irrompe decisa nell’immagine coinvolgendo fatalmente anche lo spirito dello spettatore.
Diversamente accade quando il fotografo decide di “mettere in scena” una rappresentazione sacra, restituendola in modo assoluto al mezzo fotografico.
Nel caso della serie di autoritratti The Seven Words di Fred Holland Day, l’autore interpreta Gesù sulla croce che pronuncia le sue ultime sette parole.
La sofferenza che scolpisce il volto di Cristo viene scandita in sette pannelli che si articolano lungo un polittico, e in ognuno di essi viene mostrata interpretandola di volta in volta dal fotografo con una diversa intensità emotiva.
Nell’opera di Kishin Shinoyama, il corpo dello scrittore Yukio Mishima accoglie e incarna le forme e il dolore di San Sebastiano, martire della fede cristiana, celebrato da numerosi artisti tra cui Guido Reni. Un corpo espressivo per antonomasia, che riverbera in un altro corpo parimenti espressivo, che è fascinoso e desiderabile allo stesso tempo malgrado il suo martirio.
L’accostamento di un’opera pittorica con un’opera fotografica rende evidente che le ricerche sul linguaggio espressivo corporeo come veicolo di esternazione dello spirito e degli stati d’animo hanno radici molto lontane.
Nel 1667 Charles Le Brun, pittore e decoratore francese, nonché primo pittore di Luigi XIV, tiene presso l’Accademia Reale di Pittura e Scultura un ciclo di conferenze che hanno come oggetto “l’espressione generale e particolare” dei lineamenti del volto, analizzando le passioni umane che rappresentano i moti dell’anima. Quest’ultima, in accordo con la teoria di Cartesio, ha sede nella ghiandola pineale al centro del cervello dove si raccolgono le impressioni esterne prima di confluire nello spirito e che sono rese manifeste per mezzo della mobilità delle sopracciglia.
Il pittore francese progetta quarantuno maschere delle passioni nelle quali ogni cambiamento psicologico viene determinato dalla risposta che si realizza nel movimento degli archi sopraccigliari, divenendo così uno dei più grandi antesignani della tradizione rappresentativa della fisiognomica.
Moltissimi anni dopo le maschere di Le Brun cambiano supporto e modalità di realizzazione, rinnovano i loro intenti, ma rimangono un modello concettuale riconoscibile in alcuni progetti artistici.
Ne fornisce un esempio la serie di ritratti Metamorphosis through Light che Helmar Lerski, fotografo tedesco naturalizzato svizzero, realizza tra il 1935 e il 1937 un’indagine visiva sull’azione espressiva della luce, che determina una continua trasmutazione delle forme. Lerski lavora anche nel cinema, e non a caso inizia proprio dal cinema espressionista, lavorando sul set di Metropolis. La rilevanza dell’azione simbolica e narrativa della luce, e della relativa ombra, è peculiarità assoluta in questo territorio espressivo.
In Metamorphosis through Light, fotografa ripetutamente il volto di un uomo, interessato a mostrare la sua mutevolezza, la sua astrazione. Lo decontestualizza, lo indaga da diversi punti di vista, svelandone di volta in volta un carattere che sembrava non esistere l’attimo prima. Ogni scatto è un’epifania di quel volto.
Il cinema è un mezzo artistico che presuppone, quasi sempre, la presenza di un attore che interpreta un personaggio e perciò il linguaggio espressivo del corpo e del volto ne è un aspetto fondante. Il teorico e regista russo Lev Kuleshov affrontò tali tematiche ricorrendo agli insegnamenti di François Delsarte, evidenziando anche nel cinema l’importanza del ritmo come forma del movimento. Ritmo che viene scandito dal montaggio, aspetto narrativo/sintattico e di comprensione psicologica dei personaggi. L’espressione emotiva che risiede nello sguardo in camera del protagonista è veicolata da ciò che nella sequenza prima o dopo viene mostrato allo spettatore.
Per il lavoro sul corpo espressivo Kuleshov richiedeva agli attori una quasi totale immobilità e consigliava di immaginare l’esibizione come una sequenza di pose e transizioni ritmiche, precetti di derivazione Delsartiana, affermando che l’azione smisurata non appartenesse al codice morfologico cinematografico che difatti è una successione di immagini fisse che creano l’illusione del movimento.
Un montaggio di pose e gesti è quanto ritroviamo anche nell’acquaforte di Francesco Novelli che mostra Emma Lady Hamilton, performer inglese degli ultimi decenni del Settecento, nell’esecuzione scandita delle sue Attitudes, esibizioni mute che prevedevano pose singole provenienti dalla statuaria classica o raffigurate nei dipinti antichi e moderni. Altre volte si trattava di brevissime azioni drammatiche, in cui impersonava Medea, Cassandra, diveniva baccante o fanciulla del popolo.
Le sue pose sono un terreno di contaminazione assoluta tra arti figurative e teatrali, dove lo studio minuzioso e intenso del linguaggio gestuale e fisiognomico è garante della veridicità della performance e conseguentemente del coinvolgimento emotivo del pubblico.
L’attenzione che le diverse forme d’arte hanno posto fin dall’antichità alla mimica, al gesto e a tutti gli aspetti del linguaggio non verbale, rende manifesta la necessità di trovare un aspetto visibile che sia effigie dell’appartato emotivo e invisibile che anima l’essere umano. [Giordana Citti]

 

 

 

Dans son atelier parisien, le sculpteur procède ainsi à des mises en scène des fragments et des études du Monument des Combattants. Assité d’un praticien, il les éclaire à l’aide de lampes à pétrole afin d’en faire ressortir l’expressivité dramatique. La lumière permet ainsi de mettre l’accent sur la gestualité de ses figures, à l’instar de certaines photographies de Steichen. [De bruit et de fureur: Bourdelle sculpteur et photographe, sous la direction de Chloë Théault, Le Passage, Musée Ingres à Montauban, Musée Bourdelle à Paris, 2016, p. 156]  

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Capitava infatti, soprattutto nel grande studio di Meudon popolato da statue finite e in lavorazione, e da copie o frammenti di sculture antiche, che il maestro mostrasse ad allievi e ospiti il suo rito di animazione dei marmi, simulando il modo in cui dovevano apparire agli uomini dell’antichità. Con una candela o una torcia a petrolio Rodin le illuminava una a una, facendole emergere dall’oscurità e lasciando che sulla loro superficie si agitassero le ombre proiettate dalla fiamma tremolante. Avvicinava la fonte di luce a questi corpi /fantasmi, ne svelava la tessitura, la materia, gli elementi più minuti, faceva danzare le ombre sulle loro forme cambiando i loro connotati e smuovendole dalla loro fissità, interrogandole e osservando le loro vibrazioni. La visione del marmo vivo coinvolto in questa danza suggestiva, e quindi l’intensificazione dell’espressività della figura grazie alla luce, trova nella fotografia un terreno di sperimentazione fertile e accorcia le distanze tra arte visiva e teatro. [Samantha Marenzi, Immagini di danza, Editoria & Spettacolo, Spoleto (PG), 2018, p. 301] 

 * * *  

Non si può dire che sulla nave me la sia passata molto allegramente. Dodici giorni d’acqua vanno bene per un pesce e per un esploratore di professione, ma per gente di terra sono molti. Non ho imparato a parlare né in francese né in spagnolo, ma ho sviluppato l’espressività del viso, visto che mi esprimo con la mimica. [Lilja Jur’evna Brik, Vladimir Vladimirovič Majakovskij, L’amore è il cuore di tutte le cose, a cura di Bengt Jangfeldt, traduzione di Serena Prina, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005, p. 212]

 

Il gesto a ben definirlo non è se non se il movimento esteriore del corpo e del volto; una delle prime espressioni del sentimento, date all’uomo dalla natura. L’uomo ha sentito da che ha respirato; e i suoni della voce, i movimenti diversi del volto e del corpo, sono state le espressioni da che ha cominciato ad aver senso; essi furono la lingua primitiva dell’universo fino dai suoi primordi, e lo sono ancora di tutti gli uomini nella loro infanzia. Per parlare del gesto in una maniera utile alle arti è necessario considerarlo nei suoi punti di vista differenti; ma in qualunque maniera si riguardi, è indispensabile di vederlo sempre come espressione; questa è la sua funzione primitiva, ed è per quest’attributo stabilito dalle leggi della natura, ch’egli abbellisce quell’arte, a cui s’unisce per divenirne una parte principale, e darle così anima, forma, e vigore […] I gesti affettivi poi sono la pittura dell’anima; servono la natura allorquando vuole sviluppare se stessa, e si abbandonano totalmente alle impressioni, che da quella ricevono. Tali gesti sono appunto l’anima del discorso, e contengono tutte le attitudini del corpo, siccome ancora tutti i suoi movimenti. [Antonio Morrocchesi, Lezioni di declamazione e d’arte teatrale, Tipografia all’insegna di Dante, Firenze 1832, pp. 243-250]

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Tendiamo a proiettare vita e espressione sull’immagine arrestata e ad aggiungere in base alla nostra esperienza ciò che non è presente. Perciò il ritrattista che voglia compensare la mancanza di movimento deve innanzitutto mobilitare la nostra proiezione. Egli deve sfruttare le ambiguità della faccia immobilizzata in modo che le molteplicità delle possibili letture diano luogo alla parvenza di vita. La faccia immobile deve apparire come un punto nodale di molti possibili movimenti espressivi. Come mi ha detto una volta una fotografa professionista con un’esagerazione scusabile, lei ricerca l’espressione che implica tutte le altre. [Ernst H. Gombrich, La maschera e la faccia: la percezione della fisionomia nella vita e nell’arte, traduzione di Luca Fontana, in Arte, percezione e realtà, Einaudi, Torino 1978, p. 178]