Materiali

Estratto dalla sezione Esercizi di metodo del volume La camera
meravigliosa. Per un atlante della fotografia di danza
, a cura di
Samantha Marenzi, Simona Silvestri, Francesca Pietrisanti, “La scena dei
saperi”, vol. 2, Editoriale Idea, Roma 2020.

Una bibliografia ragionata sulla fotografia di danza

Samantha Marenzi

La fotografia è una delle fonti più utilizzate per studiare la danza del Novecento. Dalla galleria dei protagonisti alla documentazione degli spettacoli, e in quella zona di mezzo che è la fotografia di danza in sé, basata sul tentativo di conservare il disegno e l’energia del movimento nell’immagine fissa, il documento fotografico ha permesso la ricognizione di gesti, posizioni, azioni, formule ricorrenti che hanno diffuso e cristallizzato la visione delle culture della danza del passato. Addirittura il suo aspetto meccanico gli ha conferito una sorta di oggettività e fedeltà documentaria che ha rischiato di distorcerne l’utilizzo e di sottrarre la fotografia a quella critica delle fonti a cui sono soggetti tutti gli altri documenti, in particolare quelli “volontari”, come Marc Bloch definiva le tracce meno affidabili della storia intesa come studio degli uomini e delle donne del tempo, che qui, nelle arti dello spettacolo, è anche il tempo extra-quotidiano del teatro. E volontaria è nella maggior parte dei casi la traccia fotografica, indizio più che prova, secondo la felice definizione di Gabriele D’Autilia che si è occupato della fotografia come documento della storia: un indizio che si complica quando i fotografi iniziano a rivendicarne lo statuto artistico e a lavorare sull’immagine più che sul suo contenuto. La gamma della natura delle fonti fotografiche inizia allora ad ampliarsi e ad andare dalla fotografia commerciale e promozionale a quella artistica, che seguono criteri e destinazioni opposte, e a comprendere la ritrattistica, il reportage, la documentazione di eventi, fino alla ricerca vera e propria che vede nella ripresa fotografica lo specchio e il laboratorio di studio dell’azione espressiva. La raffigurazione del corpo partecipa quindi a pieno titolo alla ricerca sull’espressività e sull’organicità del movimento, non solo documentandola.
Nell’ambito degli studi teatrali, dove l’iconografia ha costituito l’oggetto di una sfaccettata riflessione metodologica (si pensi agli studi di Aliverti, Guardenti, Balme, Heck), la fotografia di danza, con la sua duplice specificità, non ha finora trovato molto spazio, malgrado costituisca il caso limite del rapporto tra la transitorietà dell’azione (centrale in quella che definiamo l’arte del movimento) e la fissità dell’immagine (esasperata dalla capacità della fotografia di estrapolare frammenti dal flusso del tempo). Eppure, l’incontro tra danza e fotografia si nutre talmente del ruolo che questi due linguaggi hanno avuto rispettivamente nella riforma del teatro e nella riconfigurazione delle arti visive del Novecento da costituire un campo di grande interesse anche al di là dei suoi confini più stretti.
Alcuni storici della fotografia si sono occupati della danza in quanto soggetto di immagini diverse tra loro ma accomunate dalla sfida di suggerire il movimento e la dimensione espressiva del corpo danzante. Dalle riflessioni sulla figura umana come soggetto fotografico fino alle più recenti disamine sulla dimensione performativa del rapporto tra presenza fisica e macchina fotografica (si pensi, almeno in Italia, a Grazioli e Muzzarelli), gli studi hanno riconosciuto un genere e ne hanno delineato le caratteristiche tecniche ed estetiche.
Ciascuna prospettiva tende a privilegiare o il contenuto, di cui la fotografia sarebbe un documento, o l’autore, il suo stile e la sua tecnica. Interessante e più difficile è restare in equilibrio sull’immagine, lasciando agire le forze che arrivano da entrambe le direzioni e facendosi carico della sua propria forza, delle impronte che porta in sé da altri tempi e da altre culture, delle tracce volontarie e involontarie che la costituiscono. Da questo punto di vista una bibliografia ragionata, che vuole fare il punto degli studi sulla fotografia di danza come campo di indagine, sottende delle bibliografie implicite che abbracciano diverse discipline: la storia dell’arte e l’iconologia, dove – soprattutto a partire da Aby Warburg – l’immagine è il luogo stesso di trasmissione delle emozioni e del ritorno delle sopravvivenze; la storia del teatro, che ha saputo guardare al di là della contingenza dello spettacolo e sondare i tempi lunghi dei saperi e delle culture teatrali (penso qui soprattutto agli studi italiani a partire da Meldolesi e Cruciani); l’antropologia, in particolare quella teatrale e quella delle immagini (Barba e Savarese da un lato ed Edwards dall’altro); la teoria della fotografia, anche questa proiettata, soprattutto negli ultimi anni, sullo studio della fotografia non tanto e non solo come tecnica ma come esperienza della visione che esiste da prima e al di là dello strumento della sua registrazione (basti citare Batchen e Mikurya).
Al centro di questo intreccio di sguardi è necessario individuare una bibliografia specifica sulla fotografia di danza, un campo per sua natura multidisciplinare, dove la maggior parte dei contributi sono relativi a singoli casi di studio (valga tra tutti come esempio di metodo The performance of Pictorialist Dance Photography di Karen Vedel, 2017) i quali costituiscono la necessaria mappatura di un terreno di studi ancora indefinito.
Il volume di riferimento sulla fotografia di danza è The fugitive gesture. Masterpieces of Dance Photography (Thames and Hudson, London) pubblicato nel 1987 da William A. Ewing, curatore e studioso di fotografia, direttore di diversi musei tra Europa, Canada e Stati Uniti e autore, tra i tanti, di un celebre volume sul corpo nella fotografia, The Body, del 1994. The fugitive gesture, noto anche col titolo dell’edizione americana Dance and Photography, raccoglie le fotografie dei generi di danza più diversi ma anche di differenti stili fotografici. Dalle fotografie allestite in studio a cavallo tra Otto e Novecento, che simulano i movimenti e modificano l’immagine nascondendo col ritocco manuale funi e appigli utili alle ballerine, fino alle moderne istantanee che congelano i salti e lasciano i danzatori fluttuare in eterno nel vuoto dei fondali neutri su cui si staglia nitidamente il disegno dei loro corpi, dalle immagini che documentano la funzione sociale della danza nelle diverse culture fino alle collaborazioni artistiche che fanno dell’immagine il terreno di una duplice sperimentazione, sia coreutica che fotografica, e ancora dai ritratti dei danzatori fino alle fotografie di scena che documentano performance e spettacoli, la ricognizione di Ewing attraversa quasi un secolo dividendo in capitoli tematici circa duecento immagini dove finalmente figurano sia i nomi dei soggetti che quegli degli autori, e le introduce con un importante scritto dal titolo emblematico The Twin Arts, dove individua i punti di contatto tra questi due linguaggi apparentemente contraddittori. Bastino i titoli delle sezioni del libro a indicare la varietà e la logica di composizione del libro di Ewing: Invention; Record and Document; Icon and Idol; The Indipendent Eye; Collaborations; Tour-de-force. Sono titoli da cui si evince l’oscillazione tra il dentro e il fuori delle immagini intese come luoghi di relazione tra due arti, e quindi tra due artisti, entrambi in qualche modo autori del risultato.
Un precedente di questo volume, ma anche in un certo senso il suo contrario, è il numero monografico della rivista americana «Dance Life» del 1979, dove il curatore David Lindner, che intende la fotografia come una lente attraverso cui vedere meglio la danza, e anche come un corrispettivo della critica, passa in rassegna diverse esperienze americane soffermandosi in particolar modo sul lavoro che Marta Swope ha dedicato al New York City Ballet, sulla collaborazione tra James Klosty e Merce Cunningham, e su due grandi fotografe di danza come Barbara Morgan – autrice di un celebre libro fotografico realizzato con e su Martha Graham – e Lois Greenfield, protagonista della fotografia di danza più moderna caratterizzata dai corpi in volo ripresi nello studio fotografico con la luce flash. Nelle riviste la fotografia è la principale fonte di illustrazione degli articoli, ma anche di «descrizione della danza», come scrive Jerry L. Thompson presentandone l’esempio più recente: il numero di «Dance Index» del 2018 (vol. 9, n. 2) dal titolo Dance, Photography, che rinnova l’interesse verso i rapporti tra la danza e le altre arti di questa storica rivista fondata negli anni Quaranta. In questi contesti, che sono contesti di danza e molto connotati culturalmente, si fanno emergere i singoli casi, spesso impreziositi da interviste e materiali che permettono di ampliare il vocabolario visivo dei lettori, fornendo loro gli strumenti per guardare le immagini senza fermarsi al primo strato della loro superficie. Essenziale in questo senso è un altro numero di rivista, e in questo caso si tratta di una rivista d’arte, apparso in Francia nel 2012. La rivista è «Ligeia», fondata negli anni Ottanta dallo storico e critico dell’arte Giovanni Lista, esperto di futurismo e della cultura artistica dei primi decenni del Novecento. Il numero Photographie & Danse (n. 113-116, janvier-juin 2012) raccoglie molti contributi che oltre a presentare casi interessanti di dialogo tra la fotografia e la danza contemporanee, solleva problemi di natura teorica e metodologica. A curare il volume è Michelle Debat, che nel 2009 aveva dato alle stampe L’impossible image (La lettre volé, Bruxelles, 2009), che guarda alla fotografia in termini concettuali e alla danza non tanto come arte del movimento, quanto come esperienza del corpo, che si riflette in un linguaggio con cui condivide l’“al presente”. Due arti effimere quindi, che inscenano il tempo sondandone flussi, pause, intervalli con diverse tecniche e poetiche.
Due anni dopo il volume di Michelle Debat, e con un intento diverso, usciva in lingua inglese una importante raccolta di saggi dal titolo Imaging Dance. Visual Representations of Dancers and Dancing (Georg Olms Verlag, Hildesheim/Zürich/New York, 2011), che già nel titolo apriva un ventaglio di sfumature riguardo al soggetto e che, nel quadro di una collezione di studi sull’iconografia della danza che prendeva in esame fenomeni disparati in termini cronologici, geografici e anche metodologici, riservava uno spazio specifico al tema della fotografia. A curare il volume erano la nota storica della danza Barbara Sparti, esperta di danza del Rinascimento di cui aveva anche ricostruito diverse coreografie, e Judy Van Zile, studiosa di danze tradizionali asiatiche. Il contributo sulla fotografia porta la firma di Matthew Reason, studioso di teatro, che nel suo saggio Still Moving: The Revelation or Rapresentation of Dance in Still Photography analizza il lavoro dei due celebri fotografi di danza della seconda metà del Novecento Lois Greenfield e Chris Nash per individuare la distinzione tra riproduzione e rappresentazione e leggere la storia della danza come una storia delle sue raffigurazioni. Questo tema aveva costituito il perno concettuale del suo volume Documentation, Disappearance and the Representation of Live Performance (Palgrave Macmillan, London, 2006), che descrive come la nostra conoscenza culturale della performance sia costituita dalle sue rappresentazioni, o ri-presentazioni. Di fronte alla transitorietà della performance Reason analizza tre strumenti di documentazione: il video, la scrittura, e appunto la fotografia, che legge sotto il segno della “verità” e della “rivelazione”, ovvero come mezzo rivelatore che isola momenti di verità dettati dalle scelte estetiche dei fotografi che rendono reale e duratura la danza.
Un discorso a parte andrebbe fatto per l’area degli studi tedeschi, dove allo straordinario sviluppo della fotografia di danza nei primi decenni del secolo corrisponde una densità e maturità degli studi attuali. Basti citare, a titolo di sintesi, il recente Tanzfotografie: Historiografische Reflexionen der Moderne (a cura di Tessa Jahn, Eike Wittrock, Isa Wortelkamp, Tanzscript Verlag, Bielefeld, 2015), che raccoglie una quindicina di saggi di diversi autori su casi interessanti di collaborazione, documentazione, creazione fotografica sulla danza e archivi, radunando gli studiosi e le studiose che contribuiscono con rigore metodologico e continuità a questo campo di indagine.
Una consistente risorsa è costituita dai cataloghi delle mostre, sia per la raccolta di immagini che presentano sia per i contributi di storici dell’arte e dello spettacolo, ma soprattutto per le traiettorie di studio evidenziate dalle scelte curatoriali. A titolo di esempio cito quelli che mi sembrano più rappresentativi. Nel 1990 usciva in Austria Tanz-Foto: Annäherungen und Experimente, 1880-1940 (Österreichisches Fotoarchiv im Museum moderner Kunst, Wien, 1990), che oltre ad offrire una vasta panoramica mostrava le scelte e l’approccio di studio della curatrice Monika Faber, grande esperta della fotografia dell’ambiente viennese e dei suoi legami con la cultura delle capitali europee, autrice di contributi su fotografi come Madame D’Ora, Rudolf Koppitz e altri grandi protagonisti della fotografia di danza di inizio secolo, caratterizzati dalle ricerche al confine tra ritratto, nudo espressivo e testimonianza delle culture coreutiche. Quasi venti anni dopo, nel 2009, Adrien Sina curava per la biennale al Performa di New York la mostra Feminine Futures sulle avanguardie femminili nei campi della danza e della performance, mettendo a disposizione una straordinaria collezione di documenti, fotografie, manoscritti e tracce varie della cultura artistica e performativa di inizio secolo. Il catalogo (les presses du réel, Dijon, 2011) riproduce tutti i materiali oltre a raccogliere saggi e interventi storico-critici, formando un repertorio di grande rilevanza non solo sull’argomento trattato ma anche sulla storia dei documenti, in particolare fotografici. Protagonista di questa vasta panoramica è la danzatrice Valentine de Saint-Point, a cui è dedicato il progetto. Infine, va menzionata una importante mostra parigina che si è posta l’obiettivo di proiettare uno sguardo ampio sul fenomeno della danza nelle immagini unendo vari fondi d’archivio e collezioni internazionali. Dal novembre 2011 all’aprile 2012 il Centre Pompidou ha ospitato Danser sa vie. Art et danse de 1900 à nos jours, il cui catalogo, che è andato esaurito mentre la mostra era ancora in corso e non è mai stato ristampato, è stato curato da Christine Macel e Emma Lavigne, entrambe direttrici di musei.
L’importanza delle mostre pone in evidenza quella degli archivi e delle collezioni private. Proprio il patrimonio di un collezionista, figura chiave del mondo del balletto in Russia, ha dato vita a una delle più ricche raccolte di fotografie di danza in forma di libro: Alexander Barabanov, A dance in ten movements (Jonathan Cape, London, 2009).
Infine, tralasciando i contributi monografici, va segnalato il lavoro di uno studioso che costituisce un modello nelle ricerche sulla fotografia di danza. Si tratta di David S. Shields, che ha circoscritto il suo campo di interesse alla cultura visiva americana dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento con particolare attenzione alla produzione fotografica di Broadway a cui ha dedicato un sito che raccoglie immagini, biografie dei fotografi e dei performer ed esiti di ricerche (http://broadway.cas.sc.edu/). Schields ha inoltre pubblicato nel 2013 il volume Still. American Silent Motion Picture Photography, (The University of Chicago Press), uno studio accurato che raccoglie 150 fotografie.
Non includo in questa parziale ricognizione le mostre e i contributi che indagano il rapporto tra fotografia e performance in genere, sollevando i problemi della teatralità della fotografia allestita e della dimensione performativa del documento iconografico, anche perché in questi studi la danza resta sullo sfondo come una metafora e non un insieme di pratiche, saperi, riferimenti visivi e culturali oltre che tecnici ed esecutivi. Allo stesso modo eludo gli studi sul corpo e sul movimento in fotografia, o sulla danza nella pittura e nelle altre arti, che pure costituiscono contributi di grande interesse per studiare la fotografia di danza nei termini del rapporto tra due linguaggi artistici e artificiali, allestiti e costruiti e allo stesso tempo istantanei. Tralascio infine, come più volte annunciato, gli studi su singoli danzatori e su singoli fotografi, raccolti nelle biografie che il gruppo di ricerca sulla fotografia di danza da me coordinato compila nel sito dedicato (www.fotografiaedanza.it). Tra gli impulsi alla formazione del gruppo ci sono i miei studi, che hanno fornito una prima proposta di metodo e di indicazione di aree tematiche. Tra questi il volume Immagini di danza. Fotografia e arte del movimento nel primo Novecento, Editoria & Spettacolo, Spoleto, 2018.